Le nuove frontiere della composizione hanno ultimamente messo in evidenza una connessione tra caratteristiche fisiche del suono e l’emersione di un immacolato mondo sonoro basato sull’imperfezione delle timbriche. E’ da tempo, quindi, che molti compositori hanno inteso scavalcare con coraggio la barriera dell’accessibilità immediata della musica, cercando di proporne una che vada in sublimazione. Se andassimo ad approfondire correttamente i concetti di emozione mediata e di sudditanza aurale, non potremmo scandalizzarci di fronte alla verifica di suoni che vengono legati pensando al loro peso specifico (in una tessitura che trae origine dall’aggregazione dei suoni come materiali grezzi degli strumenti).
In tal senso, il lavoro di Chaya Czernowin è proverbiale (vedi qui un mio recente profilo), poiché la compositrice sta attuando un lodevole adeguamento della partitura al principio fisico. La Kairos pubblica il concerto fatto al Miller Theatre della Columbia University di New York dell’ottobre del 2014, in cui l’International Contemporary Ensemble (ICE), diretto da Steven Schick, eseguì la quasi totalità di Wintersongs e delle Five Action Sketches.
Il ciclo di Wintersongs viene ripreso nella sua II parte (la prima e la terza prevedono delle variazioni accompagnate da una congiunzione di elettronica), in quella interamente strumentale, così come integralmente strumentali si offrono la IV e la V parte; nel comporre la Czernowin ha rivolto l’immaginazione ad uno sfortunato soggetto finito in una grotta, destinato ad un lungo sonno, che viene interrotto dalla biologica fertilità della pioggia, che nutre le radici e crea delle aperture disponibili per una rinascita; tanto era indotto dalla morte prematura di un caro collega, Mark Osborn e l’idea fu, dunque, quella di raccogliere le reazioni e sviluppare il subconscio musicale con una parata di suoni “organici” sapientemente ordinati in testura. Quando, poi, a distanza di dieci anni è approdata alla IV parte, era matura per una partitura ancora più ricca, che fosse in grado di allargare le possibilità a più strumenti e superare la base originaria costituita dal sestetto di strumentisti che formava le prime versioni. E’ perciò soprattutto nella IV e V parte che viene potenziato il pensiero compositivo della Czernowin, che riesce a sistemare due opposte oggettivazioni musicali: la contrapposizione tra lento e veloce si interseca con il contrasto toni alti-bassi, laddove la lentezza organizzativa domina i registri di tuba, flauto basso, viola, cello, etc., mentre veloci e dense sono le inserzioni sui registri di piccolo, clarinetto, tromba, etc.; la stessa inserzione di due voci costringe ad una direzione tematica, laddove il baritono Jeffrey Gavett e il contro tenore Kai Wessel non impiegano canto tradizionale, ma bisbigli o troncature. Con questo sistema si odono (immaginano) precise le evoluzioni di una narrazione del tutto anticonvenzionale, che è in grado di condurci a prese sonore mai ascoltate.
I Five action sketches (qui mancanti del numero III) sono corollari brevi delle idee compositive della Czernowin e sfruttano condensazioni, momenti di assieme che potrebbero anche ricollocarsi in una struttura più ampia. Quell’esibizione al Miller Theatre è stata importante, perché l’incontro con l’ensemble ICE, nato per mano della flautista Claire Chase (che qui suona anche, ma lascia incarico direttivo a Schick), è un momento di summa dell’attività compositiva classica odierna che fa pensare ai paralleli risultati offerti dal mondo dell’improvvisazione libera (nell’ICE troverete musicisti affini come Peter Evans o Cory Smithe), dove con altri mezzi si stanno cercando identici punti di arrivo. In breve, una nuova e nascosta poetica della musica.