Pat Metheny è stato l’elemento catalizzatore del ritorno di “fiamma” per la chitarra negli anni settanta nel jazz: è riuscito ad appassionare una platea di giovani che è ritornata sullo strumento dopo aver pensato che invece avesse raggiunto i suoi limiti. La sua formazione musicale è fatta non solo della tradizione jazz (Wes Montgomery, Jim Hall) ma anche di quella rock di Jimi Hendrix e Jerry Garcia, con una sua personale connotazione costituita da un fraseggio “romantico” e/o “cinematografico” che gli deriva dagli umori e dal clima del suo Missouri (si dice che ci siano dei tramonti scintillanti); nei momenti migliori Metheny ha incarnato quella filosofia di vita “libera”, nostalgicamente controllata e detenuta nell’interiore, figlia di quella generazione hippie che l’aveva da poco preceduto rincarandone la dose di modernità musicale. Metheny ha cercato di sviluppare le conoscenze tecniche in una forma nuova ed in tal senso il suono sintetico della chitarra è diventato il suo marchio inconfondibile. Nel jazz il suo apporto è stato rilevante sia per lo sviluppo del genere, sia per le particolarità degli strumenti usati: è stato uno degli artefici del successo dell’etichetta ECM di Eicher la cui nuova filosofia musicale gli calzava a pennello; è noto che spesso ha suonato nei suoi dischi e concerti con chitarre appositamente costruite per lui, tra cui la famosa quarantadue corde Pikasso guitar, una chitarra risonante a tre manici.
Molti critici avveduti dicono che Metheny scrive musica semplice e melodica, ma spesso la semplicità nasconde grandi artisti: se è vero che molta produzione di Metheny non è sempre all’altezza del suo talento e si rivela adatta per le “masse” specie se consideriamo alcuni aspetti (ad es. l’anima brasiliana abbastanza evidente e sfruttata per decenni), dall’altra vorrei sapere cosa ne pensano i puristi del jazz di fronte all’ascolto di un capolavoro come “Lone Jack”. Comunque in questa contraddizione solo discografica è racchiusa la carriera di Metheny: gran parte dei suoi dischi migliori si trova nei progetti del Pat Metheny Group, un ensemble magnifico formato con altrettanto splendidi musicisti: Lyle Mays pianista che degnamente gli fa da contraltare, il bassista Mark Egan poi sostituito dall’attuale Steve Rodby e il batterista Dan Gottlieb, anch’egli poi rimpiazzato da Paul Wertico e da Antonio Sanchez: tutti elementi che hanno poi avuto anche una loro valida appendice nelle rispettive carriere solistiche. L’attività da solista o gli albums di stampo jazzistico in trio o quartetto sono da considerarsi lavori di coronamento della carriera che ha dato largo spazio a lunghi periodi di “evanescenza” musicale, in cui realmente non veniva aggiunto niente di nuovo.
Se con il Metheny Group, Pat è stato in grado di donare alla fusion music un’area più vasta dei suoi confini stilistici, abbracciando scampoli di new age, folk, musica brasiliana e afflati classici (sentire ad es. “Au Lait”), con i suoi progetti solistici ha dato sfogo alle sue personali e spesso bizzarre istanze musicali, passando da un’estremo all’altro della gamma musicale: si pensi all’intimità e alla dolcezza dei paesaggi della colonna sonora del film “A map of the wordl” oppure agli episodi folk/new age di “New Chautauqua” o “One quiet night” e contemporaneamente al sorprendente disco “noise” di “Zero tolerance for silence” o anche alla collaborazione free con Ornette Coleman.
Una cosa è certa: nonostante gli ormai appaganti successi anche commerciali, Metheny pur non essendo sempre al massimo della forma compositiva, non sembra più sedersi tanto sugli allori e la riprova è il fatto che il Metheny Group degli ultimi dieci anni sia tornato a suonare sui livelli altissimi degli anni settanta ed ottanta.
Il progetto Orchestrion è la realizzazione di un lavoro “meccanico” degli strumenti: l’artista decide, con grande schieramento di mezzi economici, di guidare un’orchestra fantasma, comandata solo dalla sua chitarra e da computer. Una nuova esperienza musicale di buon livello, specie per il brano d’apertura che mostra congrui assoli ed un ottimo impianto sonoro, che però non fuga il dubbio che il musicista sia più attento ai dettagli che al risultato finale.
DISCOGRAFIA CONSIGLIATA: (con un breve commento)
Con il Metheny Group:
-Watercolors, ECM 1977, questo è l’album che lo porta alla ribalta internazionale.
-Pat Metheny Group, ECM 1978, il suo “capolavoro” ed uno dei dischi più importanti della storia della musica in generale
-Offramp, ECM 1982, sebbene l’album non sia tutto di alto livello, lo segnalo perché contiene due dei suoi cavalli di battaglia: “Are you going with me” (primo grande esempio di moderna sinfonia alla chitarra sinth) e “Au Lait”.
-First Circle, ECM 1984, ultimo album del gruppo prima di una lunga eclissi qualitativa.
-Speaking of now, 2000, il disco della rinascita musicale
-The way up, Nonesuch 2005, splendido ritorno alle origini prime e vere del gruppo.
Collaborazioni:
-As Falls Wichita, so falls wichita falls, Holyday Park 1980 (con Mays e Nana Vasconcelos), disco notevolissimo in una simbiosi perfetta con Lyle Mays.
I suoi dischi propriamente jazzistici:
-80/81, ECM 1980, con Charlie Haden, Jack Dejohnette, Dewey Redman e Michael Brecker.
-Rejocing, 1983, con Charlie Haden e Billy Higgins
I colori del Missouri:
-A map of the wordl, Warner 1999, la sua migliore colonna sonora.