La sua importanza nella musica rock è legata al fatto che ha saputo unire in maniera personale i riferimenti del suo background musicale, in primis un certo blues inglese degli anni cinquanta, poi il canto dei soulmen americani, l’habitat delle melodie folk irlandesi, spazi di folk d’autore, passaggi di swing, il tutto guidato dalla sua magnifica voce che io definisco “in presa diretta”: sentire la sua voce è come attaccare una spina alla presa di corrente, è potente, ma anche meravigliosamente “colorata”: la riconoscereste anche ad occhi chiusi.
Il suo primo disco “Astral Weeks” (1968), che arriva dopo un brutto periodo personale passato in concomitanza con le vicende del suo primo gruppo (i Them, di cui sinceramente non resta molto da dire musicalmente), è il suo capolavoro ineguagliato e probabilmente uno dei primi dieci dischi della storia del rock: un seminale lavoro dove Morrison, facendo riferimento a temi della letteratura inglese, fornisce un magnifico esempio di impasto tra cantautorato folk e jazz usato alla maniera di un’orchestrina del genere, direi quasi una versione “barocca” di una progettualità all’epoca assolutamente inedita. “Astral Weeks” ancora oggi è una pietra miliare per la formazione dei giovani folksingers e di coloro che in generale si approciano al genere rock e hanno bisogno di ascolti di una certa maturità. Peccato che la storia insegna che quella fantasia musical-letteraria svanì troppo presto: il suo secondo disco dal titolo “Moondance” replicò le gesta di “Astral Weeks” soprattutto nella prima facciata, mentre la seconda proponeva un Van Morrison più legato al blues, alla canzone pop e in generale più accondiscendente per la musica popolare; comincia a maturare uno schema di rappresentazione musicale che sarà poi l’asse portante di quasi tutti i suoi dischi futuri, una ben congegnata successione di rock songs, di rhythm & blues, di ballate con accenti folk irlandesi, di brani “mistici” dilatati (il suo aggancio ad “Astral Weeks”): “Saint Dominic’s Preview” e “Hard nose the highway” ne sono le migliori dimostrazioni. Nel 1974 viene pubblicato anche il suo primo live riepilogativo dal titolo “It’s too late to stop now”, disco doppio in vinile che rimarrà il live più esplicativo della sua carriera, mentre nello stesso anno esce anche “Veedon Fleece”, un album che lo riporta come un lampo fugace nei meravigliosi territori dell’album d’esordio: se il live è una manna dal cielo per quella mania da collezione che matura negli anni settanta in merito ai dischi doppi in vinile nel rock (vedi quanto succede per tanti artisti, dai Genesis ai Bob Seger), “Veedon Fleece” non suscita immediatamente un confronto con Astral Weeks, probabilmente perché l’aria che tirava nel rock in quegli anni non permetteva di santificare un prodotto fuori dagli schemi e dalle tendenze del momento. Van Morrison lo capisce e già dal successivo “A period of transition” si rigetta a capofitto nella sua collaudata formula musicale e, come il titolo fa presagire, si ritrova in una fase ambigua e poco attraente, dove non riesce a dare una adeguata profondità ai suoi lavori; per fortuna questo stato di non chiarezza si interrompe nel 1979 con l’album “Into the music”, raccolta di canzoni che presentano un’uso più intelligente dei fiati e dei violini Irish, che prevedono un ispessimento dei temi ed un aumento della componente spirituale soggiacente della sua musica: gli albums successivi “Common One”, “Beautiful Vision”, “Inarticolate speech of the heart”, “Sense of wonder”, “No guru no method no teacher” e “Avalon Sunset” rappresentano la sua rinascita artistica e ci consegnano un musicista di spessore che non aveva ancora dimenticato la lezione sapiente di “Astral Weeks”.
Dopo “Avalon Sunset” Van Morrison di colpo avverte la candida attrazione delle radici musicali e gradualmente si adagia su un nuovo corso che poggia sul ricordo, la semplicità e la comunicabilità ingenua della canzone, dimostrando di essere sempre più appagato di quanto fatto: la perdita progressiva di ispirazione (che dura a tutt’oggi) è confermata dal fatto che il cantante intraprende tutta una serie di collaborazioni artistiche con musicisti di rango nei generi da lui amati (blues, country, jazz), che si rivelano spesso solo un pallido ricordo delle composizioni del passato migliore dell’irlandese.
Riporto la fine dell’articolo che Wikipedia gli ha dedicato come sua biografia, poiché stavolta mi sembra molto appropriato per Van:
“…l’influenza di Morrison può essere riconosciuta facilmente nella musica di molti artisti quali gli U2 (soprattutto The Unforgettable Fire), Bruce Springsteen (Spirit in the night, Backstreets), Bob Seger, Rod Stewart, Patti Smith (responsabile di una versione poetica-proto-punk di Gloria), Graham Parker, Thin Lizzy, Dexys Midnight Runners e molti altri. Tra questi, Bob Seger in un’intervista a Creem ha affermato “I know Springsteen was very much affected by Van Morrison, and so was I” (“è chiaro che Springsteen è stato molto influenzato da Van Morrison e la stessa cosa è accaduta a me”).
Discografia consigliata:
-Astral Weeks, Warner 1968
-Moondance, Warner 1970
-Saint Dominic’s Preview, Mercury 1972
-Hard nose the highway, Polydor 1973
-Veedon Fleece, Polydor 1974
-Into the music, Warner 1979
-Common One, Warner 1980
-Beautiful Vision, Warner 1982
-Inarticulate speech of the heart, Warner 1983
-A sense of wonder, Mercury 1985
-No guru no method no teacher, Mercury 1986
-Poetic champion compose, Polydor 1987
-Avalon sunset, Mercury 1989
-Hymns to the silence, Mercury 1991
-Too long in exile, Mercury 1993
-The healing game, Mercury 1997