C’è stato un movimento negli anni ottanta partito e coltivato negli USA, chiamato dei “nuovi tradizionalisti” del rock, che costituiva un aggiornamento musicale dei generi prettamente di origine americana (rock’n’roll, blues, soul, country, ecc.) che si distingueva per la originalità della proposta poiché le band che ne facevano parte inserivano elementi personali che non erano imitazione dei maggiori gruppi che avevano fatto la “storia” a partire dalla fine degli anni sessanta (mi riferisco alle grandi band Usa di quel periodo: Greateful Dead, The Band, Allman Brothers, Little Feat, che comunque avevano miscelato parecchio tra loro i generi): in questi gruppi era più forte e fedele il riferimento alle radici della musica statunitense, da Chuck Berry a Howlin Wolf, fino ai Creedence Clearwater Revival. Tra le tante bands, sicuramente i più riconoscibili e innovativi furono i Los Lobos, band di origini messicane operante tra il Texas e Los Angeles, che riuscirono sin dall’inizio della carriera ad affermare un proprio sound fatto non solo di riproposizione pedissequa dei generi sopraccitati, ma anche arricchito di umori della loro terra, forti di un’ottima preparazione musicale a livello personale dei componenti della band: i due leader sono il chitarrista d’impatto Cesar Rosas (che avvierà anche una breve personale carriera solistica), coadiuvato allo strumento da David Hidalgo (riconoscibile per il fondamentale lavoro alla fisarmonica e per la sua voce con inflessioni latine); l’ensemble è poi completato da Conrad Lozano, che completa la strumentazione tipica a corde (mandolino, banjo) suonando il guitarron, Louie Perez alla batteria e Steve Berlin, sassofonista puntualmente inserito nel contesto variegato della band.
Il primo lavoro del gruppo “How the will the wolf survive” del 1984 introduce un gruppo che miscela la tradizione latina e messicana di confine con il loro sound fatto di riferimenti al rock’n’roll di Chuck Berry e al rockabilly di Richie Valens (scolpiscono la versione definitiva del classico della “Bamba”), al blues canonico dei maggiori rappresentati di Chicago. La coesione, la compattezza e la visuale “allargata” dei “Lupi” si impone immediatamente all’attenzione dell’ascoltatore per i suoi caratteri vitali pienamente in sintonia con i tempi in cui sta crescendo il fenomeno dell’immigrazione geografica. Il gruppo rimane nei meandri di questa sapiente miscela anche con le prove discografiche di “By the light of the moon”, “La Pistola y el corazon” (un disco di traditionals messicani) per poi prendere lentamente una svolta meno mexican-oriented e più rock/blues, conservando comunque quella freschezza compositiva che costituirà l’ossatura degli albums “The neighborhood” e “Kiko” (nel quale il gruppo raggiunge la massima estensione nella rivisitazione dei generi musicali). Poi a partire da “Colossal Head” la band si converte alle sonorità lo-fi, comprimendo la forza strumentale che era sicuramente una delle migliori caratteristiche del gruppo, mantenendo sempre lo stesso approccio compositivo: ne risulta un sound meno interessante o quanto meno appariscente seppur sempre di valore ma forse di livello inferiore al loro periodo d’oro (che va dall’esordio fino a “Kiko”).
“Tin can trust” non si sottrae a questa regola: la sensazione che i Los Lobos ormai siano in grado di campare di rendita, in lavori che hanno stranamente una certa omogeneità stilistica (proprio l’opposto di quello che si vorrebbe raggiungere), con tre/quattro brani di maggior spessore e il resto inferiore o di routine. Tuttavia, un nuovo album dei Los Lobos si lascia sempre ascoltare con piacere e al di là di tutte le possibili critiche, la loro originalità artistica (trovatemi una band che miscela istanze così diverse geograficamente: ispanico, mexican, peruviano, tex-mex, salsa, cumbia, cajun, ecc.) è una specie di marchio di fabbrica che funziona anche nei momenti musicalmente peggiori.
Il primo lavoro del gruppo “How the will the wolf survive” del 1984 introduce un gruppo che miscela la tradizione latina e messicana di confine con il loro sound fatto di riferimenti al rock’n’roll di Chuck Berry e al rockabilly di Richie Valens (scolpiscono la versione definitiva del classico della “Bamba”), al blues canonico dei maggiori rappresentati di Chicago. La coesione, la compattezza e la visuale “allargata” dei “Lupi” si impone immediatamente all’attenzione dell’ascoltatore per i suoi caratteri vitali pienamente in sintonia con i tempi in cui sta crescendo il fenomeno dell’immigrazione geografica. Il gruppo rimane nei meandri di questa sapiente miscela anche con le prove discografiche di “By the light of the moon”, “La Pistola y el corazon” (un disco di traditionals messicani) per poi prendere lentamente una svolta meno mexican-oriented e più rock/blues, conservando comunque quella freschezza compositiva che costituirà l’ossatura degli albums “The neighborhood” e “Kiko” (nel quale il gruppo raggiunge la massima estensione nella rivisitazione dei generi musicali). Poi a partire da “Colossal Head” la band si converte alle sonorità lo-fi, comprimendo la forza strumentale che era sicuramente una delle migliori caratteristiche del gruppo, mantenendo sempre lo stesso approccio compositivo: ne risulta un sound meno interessante o quanto meno appariscente seppur sempre di valore ma forse di livello inferiore al loro periodo d’oro (che va dall’esordio fino a “Kiko”).
“Tin can trust” non si sottrae a questa regola: la sensazione che i Los Lobos ormai siano in grado di campare di rendita, in lavori che hanno stranamente una certa omogeneità stilistica (proprio l’opposto di quello che si vorrebbe raggiungere), con tre/quattro brani di maggior spessore e il resto inferiore o di routine. Tuttavia, un nuovo album dei Los Lobos si lascia sempre ascoltare con piacere e al di là di tutte le possibili critiche, la loro originalità artistica (trovatemi una band che miscela istanze così diverse geograficamente: ispanico, mexican, peruviano, tex-mex, salsa, cumbia, cajun, ecc.) è una specie di marchio di fabbrica che funziona anche nei momenti musicalmente peggiori.
Discografica consigliata:
-How will the wolf survive?, Slash 1984
-By the light of the moon, Slash 1987
-The neighborhood, Slash 1990
-Kiko, Slash 1992
-Good morning Atzlan, Mammoth 2002