Eno individua un “effetto” dell’ascolto che apre le porte ad una modifica delle percezioni musicali e finanche un nuovo modo di fare musica, fatto di individualismo strumentale, di elettronica prodotta in casa ed indipendente, in sostanza il modus operandi delle generazioni di musicisti/compositori passate ed attuali. La sua musica è minimalistica nella forma, nel senso che prevede un’elastica struttura di ripetizione o una ridotta quantità di strumenti, in ciò pagando un tributo agli equivalenti interventi di La Monte Young fatti almeno un decennio prima, ma non lo è nella sostanza, poiché cerca a tutti i costi di rafforzare la tendenza atmosferica del brano musicale: più in là poi altri cercheranno di enfatizzare anche gli aspetti terapeutici della sua musica, ma Eno all’epoca puntualizzava solo gli aspetti musicali e la diversità delle funzioni dell’ascolto. Certo è che questa musica ha approfondito parecchio le sue tematiche, anche debordando sulle visuali del musicista inglese che ne aveva ben compreso le potenzialità reali e i possibili sviluppi: l’istinto generativo di molti musicisti non sempre restava nei canoni preferiti di Eno, che spesso non gradiva e criticava quelle soluzioni troppo enfatizzate o colossali.
I suoi quattro “volumi” di ambient music usciti tra il 1978 e il 1982, costituiscono allo stesso tempo la “bibbia” e il sentiero futuro preferito sul genere: qualsiasi volontà di approfondimento nell’area delle realizzazioni ambient non può prescindere dalla base di partenza, ciò che offrono queste registrazioni, ossia una sintesi coordinativa di quanto il genere musicale svilupperà negli anni successivi.
Il primo volume può essere considerato il lavoro “ambientale” per eccellenza, quello che ha le radici nella musica d’ameublement di Erik Satie, e si caratterizza per le evoluzioni del piano e di un coro che serenamente si ripetono, con Eno che dà il suo primo saggio su come ricavare sfumature da strumenti e voci; il secondo volume, assieme ad Harold Budd, è il progenitore dell’ambient più isolazionista e si basa su un ritorno all’interiorità (i rapporti professionali con Budd hanno dato vita a scintillanti episodi di moderno impressionismo musicale); il terzo volume invece è suonato da Laraaji, introduce tutta l’ambient mistica ed etnica, mentre il quarto volume è il primordiale vagito dell’ambient presentato come concretismo. A questi indispensabili albums, potete aggiungere anche il successivo Apollo: Atmospheres & Soundtracks, che completa questo quadro dando il suo contributo anche nel genere cosmico. In verità, Eno potrebbe essere considerato anche un padre putativo della world music di derivazione elettronica, avendo figurato come musicista a pieno titolo anche nel primo volume della serie Fourth World di Jon Hassell.
Eno è anche uomo che ha reso celebri tante produzioni altrui grazie al suo stile, spesso modernizzando il sound degli artisti da lui prodotti, direi anzi invadendo (in senso positivo) il campo artistico di quei musicisti: si pensi alla trilogia berlinese di Bowie, ai Roxy Music dei primi albums, ad alcune produzioni dei Talking Heads, degli U2, etc. Se queste produzioni costituiscono motivo d’orgoglio per il compositore inglese sotto il profilo della riuscita degli interventi e il gradimento dell’audiance, la sua carriera solistica da Thursday afternoon in poi (a parte qualche episodio), ha subito un forte ridimensionamento: costellata di collaborazioni non sempre riuscite, diradata nelle uscite di maggior conto, presenta un’artista sempre con la voglia di sperimentare ma che si ritrova stranamente in idee riciclate e spesso senza mordente. E’ qualcosa che però si scontra con la silenziosità mediatica delle sue installazioni.
-Taking tiger mountain, 1974
-Apollo: Atmospheres and soundtracks, (con Daniel Lanois), 1983