Personaggio nettamente sottovalutato, dotato di una voce unica, un baritono di tono alto (meno profondo per intederci di un Leonard Cohen), Stan Ridgway esordisce in piena era punk come una delle più valide risposte al fenomeno equivalente inglese, con il gruppo dei Wall of Woodoo con cui pubblica due albums, di cui il più maturo “Call of the west” lo proietta molto in alto nelle valutazioni della critica specializzata: un tappeto punk appena accentato, concrete iniezioni di sinth ed elettronica, una decisa oscurità nei testi e negli umori che riflettono le alienazioni dell’epoca e soprattutto tante piccole sfumature (fisarmoniche noir, passaggi alla Morricone, improvvisi slanci melodici e la sua voce che io spesso ho chiamato “giornalistica”: sembra di ascoltare le notizie di cronaca di un telegiornale americano trasferito in musica: un tg particolare dove le persone folli, la droga, i criminali sono sarcasticamente i protagonisti in positivo. Questa formula originale raggiunge il suo massimo splendore nei primi due episodi discografici della carriera solista iniziata subito dopo “Call of the west”: estensione dei suoni del gruppo, “The big heat” e “Mosquitos” costituiscono dei veri e propri colpi da k.o. musicale, due splendidi albums pieni di punti di riferimento e di importanti canzoni: se in “The big heat” Ridgway usa coerentemente il miglior linguaggio musicale e visivo possibile così come commenta Nunziata nella sua recensione in Onda Rock “…Ogni suo testo è una piccola scenografia. La sua voce è l’occhio che ci guida sui controcampi, sui piani-sequenza, sui montaggi paralleli. La musica dipinge gli scenari, lascia intravedere la soglia che conduce dalla vita alla finzione, e viceversa…..”, “Mosquito”, che per molti sembra un album di transizione, mette in evidenza nuovi punti di interesse per cinematografiche composizioni e per neonate aperture cantautorali. Il successivo album “Partyball” è un tentativo di imbastire la stessa magia dei precedenti lavori, ma si presenta sbiadito e senza sufficiente energia e perciò rimane deludente; si pensa ad una isolata pausa discografica, ed invece da quel momento Ridgway forse per paura di essere già obsoleto, cambia definitivamente il suo sound: questo si ammorbidisce, l’artista diminuisce o elimina totalmente l’elettronica, e in alcuni momenti suona già acid-jazz e insulsamente danzereccio: il suo talento sopravvive nella vocalità ma è la composizione e le idee che non hanno più la stessa creatività. Anche l’operazione di “Snakebit” del 2004 alla fine rimane un esperimento a se stante, che si risolve in un impegno, personale ma scontato, di rilettura di alcuni generi (blues, country, pop). Un artista con un potenziale illimitato, ma troppo presto sopito.
“Neon Mirage” in molti momenti sembra il disco di un esordiente e non quello di un artista attempato e nonostante i soliti tre o quattro brani da salvare e l’ennesimo tentativo del musicista di intraprendere un vero e proprio percorso da cantautore rock, non mi sembra che anche questa volta ci siano i presupposti per non convogliare anch’esso nella limitatezza di un giudizio artistico già intrapreso da tempo.
Discografia consigliata:
-The big heat, IRS 1986
-Mosquitos, Geffen 1989