Roscoe Mitchell: sounds, silences and creative dimensions

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Fonte Opera propria Autore Nomo michael hoefner http://www.zwo5.de, licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported, no change was made

 

Le relazioni tra il jazz e la musica classica risalgono agli inizi del novecento (vedi mio post sulla tradizione americana); partendo da Gershwin e Ellington ed arrivando ai musicisti be-bop e cool (Giuffre, Brubeck, Lewis, etc.), quelle relazioni ebbero modo di esplicarsi tenendo comunque ben presente la matrice del jazz e sempre in un rapporto di quasi piena tonalità strumentale. L’avvento del “free” permise ai musicisti di approfondire ancora una volta le relazioni tra i due generi, ma stavolta con un apporto innovativo derivante dalla contemporaneità classica che urlava il primato nella composizione: quello che fecero nella cosiddetta “creative” music personaggi come Muhal Richard Abrams, Roscoe Mitchell con tutte le sue formazioni, Antony Braxton, Henry Threadgill etc. fu un’operazione di fusione che rinnegava la tonalità e gli elementi costruttivi della melodia e armonia, per concentrarsi su una formula mista (dissonante ma non totalmente), che avesse l’urgenza espressiva del free e l’approccio sperimentale della musica classica; in verità nel movimento creativo non c’erano solo questi elementi, ma certamente l’obiettivo era quello di fornire per la prima volta, in maniera chiara ed inequivocabile, la scioccante novità dell’imperscrutabilità della loro musica e dei suoni, una specie di intelettualizzazione che poi a ben vedere non sempre fu così radicale. Uno dei primi esempi di compenetrazione dell’improvvisazione jazz in una struttura sperimentale sui suoni venne fornito da Roscoe Mitchell in “Sound”: si riproduceva anche nel jazz l’intrigo sensorio che proveniva dalla musica colta di Morton Feldman e John Cage. Mitchell ebbe modo di approndire ancora meglio i suoi studi di relazione specie dal 1990 in poi e migliorare anche l’impatto emotivo delle sue composizioni, ma quello sforzo storico oggi ci appare effettivamente come una porta che preparò il mondo musicale jazz ad una nuova dimensione, sebbene lo stesso andrebbe rapportato e redistribuito a favore di tutti quegli episodi musicali di Mitchell che hanno cercato un punto di equilibrio tra la dissonanza dei temi e la produzioni di sensazioni: penso a “Snurdy McGurdy and Her Dancin’ Shoes”, a “In Walked Buckner” o “Song for My Sister”.
Tutta la prima parte della carriera solista di Roscoe Mitchell è direzionata secondo il modello di “Sound”: una spettacolare abilità allo strumento che l’artista americano dopo altri “stage” sonori con formazioni rodate sulla stessa falsariga di “Sound”, proverà a distruibire anche nelle prove in solitudine con tutte le tonalità di sassofono, (lavori di un’invidiabile coerenza costruiti in nome di un progresso strumentale) e nel progetto più democratico del gruppo dell’Art Ensemble of Chicago. Evidente fu che nell’Art Ensemble doveva condividere le sue visuali artistiche con quelle degli altri componenti del gruppo, tuttavia qualcuno pensa che questa unione di intenti fu ancor più pregnante dal punto di vista artistico: senza mettere in discussione la formula musicale del gruppo che si rivelerà patrimonio di eccellenza nel jazz, innegabili sono le sinergie che derivavano musicalmente dalle inflessioni musicali di Jarman, Moya e Bowie, specie dal lato ritmico, ma allo stesso tempo i lavori svolti nei sessanta da Mitchell, costituiscono il modo migliore per apprezzare il suo stile: se Braxton e Jarman erano sassofonisti creativi con una vena maggiormente impostata allo stile free di Chicago, Mitchell era il prototipo del nuovo modo di suonare lo strumento: come nella migliore impostazione classica contemporanea, Mitchell si muove tra silenzi (spazi sonori senza musica), riposi (spazi sonori a basso regime), esplosioni di “suoni” improvvisati di estrema difficoltà che si alternano a suoni puri che facciano riflettere l’ascoltatore. Braxton gli era vicino ma era più abrasivo, Jarman invece era una versione creativa e viscerale di Fred Anderson. Questi sassofonisti, ai quali aggiungerei Henry Threadgill come iniziatore della seconda generazione, saranno quelli che più degli altri movimenti jazzistici, daranno una vera eredità a Charlie Parker, che non la ebbe causa la sua premorienza e allo stesso tempo saranno un’alternativa agli sviluppi del free a cui Coltrane e i suoi discepoli si erano dedicati in quegli anni, che andavano invece verso l’incontro tra culture diverse e verso l’improvvisazione di massa senza sconfinamenti.
“Far side” raccoglie alcune validissime composizioni di Mitchell sul versante da lui preferito, cioè quello della “composition-improvisation” effettuate con il gruppo dei Note Factory, progetto in cui partecipano alcune delle più importanti leve jazzistiche del momento: i due pianisti Vijay Yyer e Craig Taborn e il trombettista Corey Wilkes: Mitchell, accantonato il progetto AEOC, è ormai da vent’anni che ha imboccato la strada del compositore contemporaneo con una folta schiera di lavori che rispettano le sue prerogative e con minor frequenza si cimenta con lavori dove l’inserimento del suo linguaggio si rivolge in un ensemble che suoni soprattutto jazz. Se i precedenti lavori si facevano apprezzare per la ricerca sonora che invero continua a migliorare con l’età, “Far side” probabilmente fornisce la vera dimensione che esiste tra architettura dei suoni e impatto emotivo interiore.
Discografia consigliata:
-Sound, Delmark 1966
-Old/Quartet, Nessa 1967
-Congliptious, Nessa 1968
-Nonaah, Nessa 1976
-Snurdy McGurdy and Her Dancin’ Shoes, Nessa 1980
-In a Walked Buckner, Delmark 1999
Fermo restando che sarebbe consigliata tutta la discografia, con gli Art Ensemble of Chicago:
-A Jackson in your house, Actuel 1969
-Tutankhamun, Freedom 1969
-People in sorrow, Pathè-Marconi 1969
-Message to our folks, Actuel 1969
-Certain Blacks, America 1970
-Les stances a Sophie, Pathè-Marconi 1970
-Phase one, America 1971
-Fanfare for warriors, Atlantic 1973
-Urban Bushmen, Ecm 1980
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.