Captain Beefheart: la trasposizione in musica delle arti

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La morte di Don Van Vliet in arte Captain Beefheart non ci prende di sorpresa, poiché l’art-style rockman americano era da tempo affetto da una forma grave di sclerosi multipla. Mi preme però fare alcune considerazioni su questo musicista, il cui disco del 1969 “Trout Mask Replica” viene spesso ricordato come il miglior disco di rock di tutti i tempi, soprattutto quando si ritiene che il rock possa essere esteso anche ad altri elementi. Captain Beefheart ha avuto il merito di imporsi non solo come cantante ma anche come musicista da riproduzione d’arte: suonava blues (alla Howlin’ Wolf), spesso in maniera rigorosa, ma non doveva trasmettere la sofferenza degli schiavi, bensì il suo disfattismo acido e tremendo verso la società, così come molto surrealismo pittorico propugnava; cercava di creare musicalmente passaggi sonori contorti, sgangherati, non necessariamente atonali, che potessero, assieme alla sua voce rauca e spasmodica (con urla e ruggiti quasi animaleschi), riprodurre una diversa realtà umana; musicalmente Beefheart non fu accostabile per trasposizione solo al surrealismo di Dalì e Mirò, ma anche al movimento dadaista e in misura molto più contenuta a quello futurista (per via degli spunti rumoristici utilizzati); in specie, riguardo al dadaismo era innegabile l’evidente riferimento usato nei testi, che per lo più sbattevano in faccia all’ascoltatore un continuo rinnegamento dello stato dell’arte (questa caratteristica era anche di Zappa e veniva chiamata anti-arte); i dadaisti la ridicolizzavano seguendo un copione che era ridivenuto di tendenza negli anni sessanta, con un programma che copriva non solo le intenzioni provocatorie ma anche gli aspetti della pratica musicale, dal momento in cui si scoprì che quel linguaggio artistico era potenzialmente adottabile dalla musica rock (gli esperimenti dadaisti non erano solo di Beefheart e Zappa, basti pensare a tutto il movimento progressivo del rock di Canterbury). L’importanza di Beefheart quindi è duplice: sia per il fatto di essere stato uno dei primi a filtrare nella musica l’elemento della follia e della “rivolta” contro le arti tradizionali, sia soprattutto per essere stato il primo che riuscì a creare una reale alternativa ai suoni che Miles Davis e musicisti affini stavano creando, in un momento della storia musicale in cui imperversava la fusione tra rock e jazz (anni sessanta), adottando una sorta di “prospettiva” nettamente diversa: se il Davis di “Bitches Brew” cercava nell’unione tra generi un complotto melodico o comunque suggestioni elettroniche tese a ricreare un paesaggio sonoro con forme aventi una visibilità piena come nel cubismo di Picasso e Braque, Beefheart invece univa il suo rock-blues subliminale con sprazzi di free jazz senza elettronica, un modo per dare spazio alle sue “deformazioni” musicali, al senso nascosto dell’immaginario: questo senso della deformazione, dunque, che accompagnerà molti musicisti in epoche successive, nasce proprio da Beefheart, perciò nella storia del rock egli dovrà essere considerato, in virtù della forza d’urto della sua musica, un precursore o un origine di una nuova condizione artistica.
La discografia di Beefheart ha le sue impennate di valore nel periodo che fluttua attorno al “Trout Mask Replica”: se l’esordio discografico “Safe as milk” già imponeva il suo caratteristico canto blues con qualche incursione soul, già da “Strictly Personal” il sound si faceva già più visionario, più intricato, con brani più dilatati dove il suo blues surrettizio si sposava con la jam improvvisata secondo gli stilemi del free jazz (“Mirror Man”). “Trout Mask Replica” fu seguito solo da un episodio discografico dello stesso tipo, dove i brani acquistarono un tono di brevità e una forma vicina alla “pennellata” artistica (si tratta di “Lick My decals off baby”), poi Beefheart stanco forse di una vita economica poco appagante, venne probabilmente manipolato dai discografici per molti anni alla ricerca di un sound più morbido che potesse andare incontro ad un pubblico più vasto negli anni in cui contemporaneamente andò in diverbio con Zappa e con i suoi più fidati musicisti; finché nel 1978, ritornando sulle scene con “Shiny Beast”, recuperò parzialmente l’identità perduta dei primi lavori. Fu un ritorno qualitativo di breve durata, a causa dell’ulteriore insuccesso commerciale che lo costrinse psicologicamente a ritirarsi completamente dalla scena musicale e dedicarsi alla pittura: quest’ultimo passaggio vitale è sintomatico perché dimostrava come l’arte della musica non venisse abbastanza “indirizzata” dagli attori che la costituivano, a differenza invece della pittura dove Beefheart trovava un evidente appagamento artistico nello stile dell’espressionismo astratto (sebbene anche qui fosse all’inizio osteggiato dai critici pittorici). Un vero artista, che nonostante le diversità di vedute che ancora oggi molti avanzano a proposito delle modalità dissacratorie con cui amava rappresentarsi e della mancanza di un’“anima musicale”, merita un grande rispetto: “Trout Mask Replica” è opera che rientra in quel cattivo leit-motiv che vede “scandalose” le opere nell’epoca in cui vengono composte, ma che poi diventano capolavori inestimabili nel tempo.
Discografia consigliata:
-Safe as milk, Buddah 1967
-Trout mask replica, Straight R., 1969
-Lick my decals off, baby, Straight R.,1970
-Mirror man, Buddah, 1971
-Doc at the radar station, Virgin 1980
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.