A metà degli anni ottanta, il movimento mainstream nel jazz (ossia quella pratica di combinare tutti i generi esistenti, dal bop al free) prese quota proprio grazie a musicisti come Joe Lovano: questo americano di Cleveland, rinunciando ad una spettacolare carriera da sassofonista in stile free, decise di combinare le varie epoche del jazz per dare la sua unica voce in quel panorama: con un’impianto stilistico chiaramente figlio delle tematiche di Rollins e Coltrane, Lovano se ne differenziò per il sound particolarmente robusto e presente al sassofono tenore (strumento dove meglio si evidenziavano le sue caratteristiche) e per una scintillante e pregnante bellezza dell’espressione.
Il suo primo album “Tones, shapes and colors” del 1985 mette in evidenza subito una contrapposizione tra il “dolce” vibrato e la compatezza dei brani più veloci e mostra un’addensamento dei temi nell’area del be-bop, ma è con “Village Rhythms”, accanto ancora al pianista Kenny Werner, ma con due valenti strumentisti in aggiunta come Tom Harrell e Marc Johnson, che Lovano centra il suo primo bersaglio con proprie composizioni: il suo sax svetta per evocazione nostalgica e tempismo in un elegantissimo post bop. L’anno successivo Lovano si presenta con un ensemble allargato che ospita tra gli altri Bill Frisell, Henri Textier, e Paul Motian, in una esibizione live che coinvolge anche la moglie cantante Judi Silvano: il musicista si sposta la sua ottica verso lidi più di fusione in ossequio alle collaborazioni che oramai consolidavano il rapporto musicale tra lui, Frisell e soprattutto Motian: il sassofonista dimostra una maturità artistica impressionante, non solo nella composizione, ma anche per l’ uso splendido delle scale che si contrappongono ad un tenero fraseggio e per una fresca e vitale valenza improvvisativa. “Landmarks” conferma la forte presenza musicale del leader ed è l’album stilisticamente più democratico realizzato da Lovano: non solo si ritrovano i modelli jazzistici, è anche l’espressione che ne esce rafforzata con un’operazione di straordinaria distribuzione delle note, che vengono centellinate in maniera superba, confermando l’approccio di originalità allo strumento dell’artista americano: questo genere di albums, nei quali la lezione del passato viene mirabilmente filtrata dalla modernità, diventa il preferito della stampa: John Fordham di “The Guardian” nel suo libro dedicato alla storia del jazz lo pone infatti nei 100 dischi fondamentali, così come il successivo “From the soul” figura in molte top list di parecchi critici ed istituzioni musicali: in quest’ultimo Lovano viene coadiuvato da Petrucciani, Holland e Blackwell. In “Universal Language”, sempre ben contornato dalla crema dei musicisti di riferimento, suona più strumenti dando anche l’impressione di voler sposare la sua magnifica espressione melodica con una certa “seriosità” che si rivela da incursioni in territori più “liberi”. A quel punto Lovano tenta “nuovi” percorsi che passano dal rifacimento di standard; ne vengono coinvolti “Tenor Legacy” (che vince il referendum della rivista italiana Musica Jazz) e i quartetti al Village Vanguard, i quali mostrano comunque la sua classe nonostante il repertorio sia ampiamento sfruttato. “Rush Hour” è il primo esperimento in orchestrazione, con una formazione guidata da Gunther Schuller, ma la sensazione forte è che il sassofonista stia abusando della sua proverbiale melodicità a scopi commerciali, fatto confermato dalla successiva raccolta di canzoni dedicate a Sinatra che subiscono arrangiamenti pesantissimi. (stessa sorte toccherà anche al tributo effettuato al nostro Caruso). Purtroppo, questa voglia di tributare (in maniera poco erudita) a tutti i costi personaggi e periodi storici, costituirà il leit-motiv della seconda parte della sua carriera discografica (tutta la produzione del decennio 2000-2010), sbiadendo spesso quel ricordo positivo suscitato dalle sue migliori performance: emblematica l’espressione usata da Scaruffi nella sua biografia del jazz dove ritiene che.. “Few people have so stubbornly staged a life-long revival of hard-bop when they had the talent to play something else…”: si distinguono solo le due edizioni del “Trio Fascination” con Holland e Elvin Jones nel primo episodio e tre altri terzetti con musicisti diversi (tra cui Werner al piano, Thelemans alla fisarmonica e Dave Douglas alla tromba), dove viene recuperato il moderno bop del passato, con forti retaggi freestyle.
Il nuovo gruppo di Lovano, gli Us Five, composto dal pianista James Weidman con alcune nuove leve del jazz statunitense (Esperanza Spalding, Otis Brown e Francisco Mela), sembra ridare allo stesso, nuova linfa e voglia di comporre, con un presunto indirizzo jazzistico di “folk art” che manda il suo “mainstream” in territori vicini alle tematiche di Ornette Coleman, sebbene l’appena pubblicato “Bird Songs” gli sia qualitativamente inferiore.
Discografia consigliata:
-Village Rhythms, Soul Note,1988
-Worlds, Evidence, 1989
-Landmarks, Blue Note, 1990
-From the soul, Blue Note,1991
-Universal language, Blue Note, 1992
-Trio fascination: Edition one, 1998
-Flights of fancy: Trio fascination vol. 2, Blue Note, 2001
-Us Five, Folk Art, Blue Note, 2009
Non dimenticherei nemmeno le collaborazioni con Motian e Frisell in “Psalm”, “The story of Maryam” “Jack of clubs”, etc. (vedi i miei post relativi)