Bruce Cockburn

0
427
Cambridge Festivals 2001-2014 Source https://www.flickr.com/photos/ledgard/967370342/ Author Bryan Ledgard Creative Commons Attribution 2.0 Generic license.

 

Oh Tokyo Non riesco mai a dormire tra le tue braccia
La mente continua a risuonare come un allarme antincendio
Hai dovuto farmi vedere quella scena dell’incidente
Non ero abbastanza scosso?
Mi mancherai ancora
Bruce Cockburn
La sciagura di Sendai unita all’ascolto del nuovo lavoro del canadese Bruce Cockburn, ha riportato alla mia memoria una canzone che il songwriter aveva scritto su “Humans” nel 1980: “Tokyo”. In quel brano, scaturito da un suo primo approccio turistico in Giappone, Cockburn metteva un pò in evidenza il carattere dei giapponesi: si trovò ad assistere all’incidente di un’auto che era finita nel fiume e non capendo la lingua si affidò ai comportamenti e alle risposte dei presenti. Il suo punto di vista era quello di un popolo con una sensibilità oltre misura, specie per il prossimo, con una coscienza umana superiore alla media; non è questo il luogo per ricordare come molta parte delle menti intelligenti del Giappone, anche nel campo delle arti, abbia da sempre preventivato l’incubo di un’evento catastrofico e definitivo, un ineluttabile conseguenza delle solite contraddizioni volute da pochi uomini di potere.
 
Bruce Cockburn pubblica il suo primo album solista nel lontano 1970: la stampa specializzata lo colloca subito nei folksingers che fuoriescono dai canoni del Greenwich Village, ma Cockburn in realtà è un folksinger speciale, che dai movimenti poetici post-dylaniani e da quelli invece intimistici di Joni Mitchell o Carole King etc., prende giusto quello che gli serve per mettere in piedi la base della sua scrittura; testi pastorali, più da predicatore più che da cantautore, con un forte legame alla realtà visiva (natura, animali, ecc.) che serva da veicolo per immaginarie escursioni sulle vicissitudini degli uomini. Musicalmente, “High wind, white sky” lo mette a fuoco: una via di mezzo tra la vena chitarristica sbarazzina della prima Joni Mitchell e il fingerpicking acustico di John Fahey, con una vocalità quasi da “confessionale”: quest’album costituirà già uno dei vertici della sua discografia, giacchè rappresenta il primo riuscito tentativo di coniugare le sue “parabole” evangeliche (qualcuno lo ribattezzò come un nuovo S.Francesco della musica), con un sound che respira l’aria del suo Canada, quello delle zone incontaminate, fatte di affascinanti e solitarie bellezze paesaggistiche. Da quel momento e per tutti gli anni settanta Cockburn pubblicò regolarmente a distanza annuale dischi che pian piano abbandonavano la dimensione completamente acustica per abbracciare una più elettrica, con maggior senso degli arrangiamenti: “Sunwheel dance” fu il primo esempio, seguito dall’altro high-point di “Night Vision”, in cui compaiono per la prima volta espliciti riferimenti al blues e al jazz e dove Cockburn introduce uno dei suoi marchi di fabbrica, il brano alla chitarra acustica interamente strumentale (“Island in a black sky”), una sorta di passaggio “ambientale” molto personale, dove l’amore per gli spazi acustici alla Fahey si distilla con il suo stile più brumoso e spesso felicemente nostalgico. “Night Vision” viene immediatamente bissato l’anno dopo da “Salt, sun and time”, mentre nettamente inferiore è la prova di “Joy will find a way”. Di converso, invece, il successivo “In the falling dark” lo proietta in una rinnovata cura verso gli arrangiamenti e la produzione sonora: con pochi mezzi, Cockburn riesce a tirar fuori un album notevolissimo che accanto alla solita verve mistica accoppia un sound eterogeneo che ha le sue radici sonore nel folk-jazz di “Astral Weeks” di Van Morrison, nella canzone d’autore mitchell-iana, nelle espressioni elettriche del rock west-coast di quegli anni; è in quest’album che si incomincia anche a presentare in maniera piuttosto esplicita un’impronta “world” che poi verrà ripresa in maniera più evidente in altri episodi discografici futuri, riposizionandosi liricamente sui problemi sociali e politici nel mondo: Bruce diventerà sostenitore delle principali organizzazioni a scopo benefico internazionali risaltando gli episodi di Amnesty International e Medici Senza Frontiere; questa evoluzione si riversa anche nel suono, che acquista una maggiore presenza e un miglior confezionamento, ma inesorabilmente diventa un pò meno personale, perdendo quel carattere di etereo e di aureo che la sua musica possedeva; inoltre comincia a balenare anche una certa stanchezza compositiva che si protrae per tutti gli ottanta fino “Nothing but a burning light” che mostra una produzione che media le sue tipiche prerogative musicali con una linea “roots” sintonizzata con i movimenti “new traditionalists” americani di quegli anni. Dopo ancora un controverso “Dart to the heart”, Cockburn finalmente ritorna ai livelli dei settanta con il successivo splendido “The charity of night” sul quale ritornano finalmente quelle riflessive immagini notturne ed oscure, introspettive, spesso più raccontate che cantate, con un fondamentale apporto strumentale del vibrafonista Gary Burton e del contrabbassista Rob Wasserman, ed un più equilibrato utilizzo delle tematiche sociali e politiche. Gli accenti etnici (africani e mediorientali sopratutto) di cui si diceva prima si fanno sentire negli episodi successivi di “Breakfast in New Orleans Dinner in Timbuktu”, di “You’ve never seen everything” e “Life short call now” (che rappresentano le sole pubblicazioni del decennio 2000-2010), con una dimensione cantautorale ormai completa a livello musicale che dimostra come Cockburn abbia spostato leggermente la sua verve compositiva verso le basi espressive di “The charity of the night” (sebbene nessuno dei tre gli sia vicino qualitativamente); quello che invece lascia pensare è il recupero di certe “leggere” melodie che non gli sono forse congeniali e privano le sue opere di quei particolari sussulti che la caratterizzavano. Cockburn, comunque, rimane sempre uno dei più originali cantautori donati all’universo musicale, la cui popolarità non eguaglierà quella di suoi colleghi più blasonati (penso a Neil Young), ma è artista la cui visione etica è certamente più sopraffina e non può essere trascurata.
 
Discografia consigliata:

-High Winds white sky, True North 1971
-Night Vision, True North 1973
-Salt sun and time, True North 1974
-In the falling dark, True North 1977
-Humans, True North 1980
-Nothin’ but a burning light, Columbia 1991
-The charity of night, Rykodisc 1997
-Breakfast in New Orleans, Dinner in Timbuktu, Rykodisc 1999
-Speechless, Rounder 2005 (album compilativo che raccoglie tutti i suoi strumentali)

Articolo precedenteGavin Bryars e il minimalismo europeo
Articolo successivoKenny Wheeler
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.