Joachim Kühn

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photo Joachim Kühn beim Solokonzert in der Stadtkirche Darmstadt am 28.01.2016 Datum 28. Januar 2016 Quelle Eigenes Werk Urheber Jens Vajen, Creative-Commons-Lizenz „Namensnennung – Weitergabe unter gleichen Bedingungen 4.0, no change was made
Nell’ambito dei pianisti che si affacciarono nella scena jazzistica alla fine dei sessanta carichi di un nuovo potenziale da esprimere, particolarmente non delineato fu il talento del tedesco Joachim Kuhn; in quegli anni la scena è dominata dalla “fusion” degli americani Herbie Hancock, Keith Jarrett e Chick Corea, ma all’Europa mancava proprio il suo degno rappresentante in quel genere. Tuttavia, Kuhn fece nella sua vita artistica molto riferimento al modello statunitense, quando questi ultimi invece cominiciavano a prendere in considerazione riferimenti stilistici europei e per questo fu confuso dalla critica quasi fosse un musicista Usa rientrando nelle solite categorizzazioni che non gli rendevano giustizia in quel momento. Rispetto a Jarrett, a cui bisognava giocoforza accostarlo dal punto di vista dello stile, Kuhn mostrava un più ampio interesse per il free jazz che, (vedi il suo primo album da solo al piano “Piano Solos” del 71) si rifaceva in eguale misura alla cultura pianistica jazz (nell’asse consueto Brubeck-Evans) e ai mostri sacri del pianismo free come Paul Bley e in parte Cecil Taylor: “Piano Solos” (che costituirà una delle prove più significative dell’artista) si distingue per un allineamento piuttosto originale tra il solito romanticismo dei pianisti dell’epoca e il dinamismo direi quasi “ruminativo” del suo piano che lo accosta ad un certo tipo di cultura, classica e jazz, di tipo avanguardistico. I progetti discografici di Kuhn di quegli anni sono la risultante di questo tipo di espressività: da una parte c’è la anima “jazz/rock” che cerca di ricreare intrecci tra il jazz così come conosciuto fino ad allora e le culture che provengono dalla musica rock e che sono tipicamente americane; dall’altra non mancano i progetti più “sperimentali”. Perciò Kuhn alternerà le due tendenze, colpendo il segno nella prima, almeno in un paio di episodi, grazie anche all’apporto indovinato degli strumentisti impiegati e tra i quali vanno menzionati il chitarrista Philip Catherine nonchè le sezioni ritmiche di Vasconcelos e Mouzon (in tal senso il suo valido contributo alla fusione jazz è forse solo il notevole “Hip Elegy”) e successivamente raffinando i suoni in un ensemble dove partecipano Michael Brecker e Eddy Gomez (in “Nightline New York”); nell’altra tendenza si distingueranno invece le collaborazioni con la crema dei musicisti all’avanguardia europei (“Solo Now” con Albert Mangelsdorff, Guenter Hampel e Pierre Favre e quelle quasi da camera di “I’m not dreaming” un quartetto formato da Ottomar Borwitzky, George Lewis, Mark Nauseef e Herbert Foersch.). Kuhn, comunque continuerà nella ricerca del capolavoro al piano, alzando sempre più il tiro sulle registrazioni solistiche al pianoforte solo, con alcuni indiscutibili high points (“Charisma”, “Distance”), ma soprattutto con “Wandlungen:Transformations” e “Dynamics” che smussano la parte melodica del suo pianismo in favore di quella più riflessiva e free, finalmente sganciando l’idea di plagio di un ipotetico Jarrett. Nei novanta Kuhn intensifica le collaborazioni, tese ad un recupero dei generi tradizionali del jazz, tra cui emergono le esperienze in un trio be-bop con accenti free assieme a Daniel Humair e J.F.Jenny Clark (“Easy to read” e “Carambolage” soprattutto), quelle jazz-rock tendenti al prog fatte in “Let’s be generous” con Tadic, Nauseef e Newton, nonchè quelle realizzate con il compositore tedesco e tecnico del suono Walter Quintus per il balletto; grazie a Quintus che manipolava al computer suoni di etnie diverse, nasce l’idea (percorsa in tutto il decennio 2000-2011) di dedicarsi alle interazioni tra jazz e musica etnica; in particolare parteciperà a “Journey to the center of an egg” del libanese suonatore di oud Rabih Abou Khalil e soprattutto si lega in trio con il batterista spagnolo Ramon Lopez (apprezzato per le sue collaborazioni in patria con uno dei più internazionalizzati jazzisti del posto Agusti Fernandez) e con il musicista marocchino Majid Bekkas, dando vita ad un distillato di etno-jazz con radici nordafricane (rafforzando in tal senso le interazioni fatte dal suo predecessore Randy Weston), nel quale l’impeto pianistico viene fatto confluire in un più articolato discorso d’insieme. Il trio ha pubblicato tre valide prove discografiche che prefigurano un dinamico apporto jazzistico all’etnia di Bekkas, senza particolari innovazioni di sorta ma anche senza sovrapposizioni, in una totale armonizzazione delle fonti stilistiche.
Discografia consigliata:

Solo Piano

-Piano, MPS, 1971
Charisma, Wea 1977
-Distance, CMP,1984
-Wandlungen: Transformations, Cmp 1986
-Dynamics, CMP, 1990

Ensembles

-Hip Elegy, MPS 1975
-Solo Now, MPS 1976
-Nightline New York, Inakustik R. 1981
-I’m not dreaming,CMP 1983
-Easy to read, Universal Jazz 1985
-Let’s be generous, CMP 1990
-Carambolage, CMP 1991
Kalimba, ACT, 2007 with Majid Bekkas, Ramòn Lòpez
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.