I thought I met a man
Who said he knew a man
Who knew what was going on
I was mistaken
Only another stranger
That I knew
And I thought I had found a light
To guide me through
My night and all this darkness
I was mistaken
Only reflections of a shadow
That I saw
And I thought I’d seen someone
Who seemed at last
To know the truth
I was mistaken
Only a child laughing
In the sun
Laughing – David Crosby da “If I could only remember my name”
Una delle armi vincenti della scena pop-rock californiana degli anni sessanta fu proprio quella di saper giocare sul tema del sogno: il celebre cantante David Crosby in particolare, nonostante le tante asprezze caratteriali, aveva una visione unica della vita. In tempi in cui probabilmente i rapporti personali acquistavano una particolare rilevanza, Crosby possedeva una coerenza e convinzione nella scrittura di canzoni che poteva ben supportare quell’estasi che indicava mondi migliori: la ricerca della verità elettiva veniva affrontata con tanta perizia e con un senso dell’onirico che ancora oggi risulta attuale e affascinante. In “If I could only remember my name”, raccolta di brani e di “campioni” dell’estetica californiana di quegli anni, Crosby sviscerò fino in fondo la voglia di spiegare musicalmente il suo punto di vista anticonformista, “allungandosi” vocalmente (come ombre serali che si stendono nel cielo) in spazi mai sperimentati prima, dilatati e magici, compiendo un’operazione per la quale non è sbagliato pensare di aver creato un proprio marchio di fabbrica così importante tale da suscitare paura di un confronto nelle generazioni successive di musicisti. Quell’invocazione del sogno di tipo vocale (spesso frutto di una integrazione corale armonica) fu il principale veicolo di affermazione di quel “pop” condito di sole e surf, che nei primi anni sessanta si affermò in America grazie ai Beach Boys: una perfetta armonizzazione delle voci dei cantanti fu in grado di trasformare quel gruppo da semplice banalità ad icona della ideologia musical-popolare: quell’intreccio vocale, che avrà in “Pet Sounds” la sua massima espressione, sarà uno degli oggetti “sacri” più maneggiati dall’intera storiografia musicale.
Sulla base di queste due “grandi” influenze nascono i Fleet Foxes, gruppo indie di Seattle, città teoricamente predisposta per altre caratterizzazioni musicali, diverse da quelle californiane. Tuttavia “Helplessness blues” è una sintesi perfetta e rigenerante del mondo del folk e del pop americano degli anni sessanta e settanta. L’esordio omonimo del 2008, (che già faceva pensare ad una band unica nel riproporre in maniera originale i due miti americani prima evidenziati), si propone come il “pop” delle nuove generazioni: è “amaro” quanto basta nella sua collocazione, utilizza una forma “scheletrica” di costruzione della canzone (che abbraccia anche il Dylan monolitico degli esordi) ma ha anche una buose dose di ottimismo. In questa seconda opera lo spettro sonoro viene ampliato: se è vero che la base di fondo è sempre quell’asse Beach Boys-Crosby, è altrettanto vero che sono in aumento gli spazi dedicati ad altri riferimenti musicali: emerge in alcune canzoni la forma di suite che era prerogativa dei gruppi folk psichedelici degli anni sessanta, anche di matrice non statunitense (l’influenza più marcata è quella degli Incredible String Band), emerge un innegabile afflato musicale alle atmosfere placide e glabre di Simon & Garfunkel, addirittura colpisce positivamente l’arrangiamento di sassofono “free” che scheggia “The Shrine/An Argument”. In “Helplessness blues” è quasi tutto bilanciato in maniera certosina, è la dimostrazione lampante di come si possono fare valide riproposizioni con dei buoni modelli e con gli strumenti più semplici a nostra disposizione (una chitarra classica che sventaglia un’accordo, delle voci ed un tamburello): in barba alla modernità ed agli sviluppi che il folk sta cercando di ritagliarsi, i Fleet Foxes compiono quel salto all’indietro che riporta bruscamente l’ago della bilancia del tempo a quarant’anni fa, ma questo processo a ritroso viene compiuto ritagliandosi un proprio spazio tra quei giganti musicali, senza nessuna paura di sfigurare. In realtà, quello che più convince è il fatto di aver ricreato nella musica popolare un’immagine “americana”, una dimostrazione che gli impulsi creativi dei giovani musicisti non vengono solo dall’America della campagna alternativa; gli elementi del “pastiche” musicale si trovano in casa. “Helplessness blues” che già è reperibile sulla rete ancor prima della sua uscita naturale prevista per il 3 Maggio, ridona speranza ad una gioventù che ha basato le proprie scelte sulla depressione canora/sonora, con temi necessariamente più aggiornati rispetto a quelli che animavano le canzoni del Greenwich Village o della California del Surf; i Fleet Foxes hanno ripreso da questi movimenti un modello stilistico per esprimere le nuove preoccupazioni dell’uomo, facendolo così bene da farci dimenticare di avere avuto a che fare (in un’altra età) con quei modelli stessi.
Sulla base di queste due “grandi” influenze nascono i Fleet Foxes, gruppo indie di Seattle, città teoricamente predisposta per altre caratterizzazioni musicali, diverse da quelle californiane. Tuttavia “Helplessness blues” è una sintesi perfetta e rigenerante del mondo del folk e del pop americano degli anni sessanta e settanta. L’esordio omonimo del 2008, (che già faceva pensare ad una band unica nel riproporre in maniera originale i due miti americani prima evidenziati), si propone come il “pop” delle nuove generazioni: è “amaro” quanto basta nella sua collocazione, utilizza una forma “scheletrica” di costruzione della canzone (che abbraccia anche il Dylan monolitico degli esordi) ma ha anche una buose dose di ottimismo. In questa seconda opera lo spettro sonoro viene ampliato: se è vero che la base di fondo è sempre quell’asse Beach Boys-Crosby, è altrettanto vero che sono in aumento gli spazi dedicati ad altri riferimenti musicali: emerge in alcune canzoni la forma di suite che era prerogativa dei gruppi folk psichedelici degli anni sessanta, anche di matrice non statunitense (l’influenza più marcata è quella degli Incredible String Band), emerge un innegabile afflato musicale alle atmosfere placide e glabre di Simon & Garfunkel, addirittura colpisce positivamente l’arrangiamento di sassofono “free” che scheggia “The Shrine/An Argument”. In “Helplessness blues” è quasi tutto bilanciato in maniera certosina, è la dimostrazione lampante di come si possono fare valide riproposizioni con dei buoni modelli e con gli strumenti più semplici a nostra disposizione (una chitarra classica che sventaglia un’accordo, delle voci ed un tamburello): in barba alla modernità ed agli sviluppi che il folk sta cercando di ritagliarsi, i Fleet Foxes compiono quel salto all’indietro che riporta bruscamente l’ago della bilancia del tempo a quarant’anni fa, ma questo processo a ritroso viene compiuto ritagliandosi un proprio spazio tra quei giganti musicali, senza nessuna paura di sfigurare. In realtà, quello che più convince è il fatto di aver ricreato nella musica popolare un’immagine “americana”, una dimostrazione che gli impulsi creativi dei giovani musicisti non vengono solo dall’America della campagna alternativa; gli elementi del “pastiche” musicale si trovano in casa. “Helplessness blues” che già è reperibile sulla rete ancor prima della sua uscita naturale prevista per il 3 Maggio, ridona speranza ad una gioventù che ha basato le proprie scelte sulla depressione canora/sonora, con temi necessariamente più aggiornati rispetto a quelli che animavano le canzoni del Greenwich Village o della California del Surf; i Fleet Foxes hanno ripreso da questi movimenti un modello stilistico per esprimere le nuove preoccupazioni dell’uomo, facendolo così bene da farci dimenticare di avere avuto a che fare (in un’altra età) con quei modelli stessi.