Dopo un periodo di relativo abbandono, nel 2004 alcune aziende importanti si convinsero a sostenere la Chicago del jazz con delle donazioni “pubblicitarie” nell’ambito di un programma teso ad un rinnovato interesse delle maestranze, un rimettersi a seguire il genere nei concerti e nelle pubblicazioni discografiche: si trattava di cifre non paragonabili a quelle che venivano stanziate dall’amministrazione pubblica per le orchestre sinfoniche, ma certamente di importo significativo se rapportato a quello che era la considerazione del jazz presso il pubblico. Nonostante il momento difficile, comunque gli abitanti di quel paese mostrarono una sensibilità verso il jazz (che navigava economicamente a fatica nei nightclubs) memore della rilevanza di un passato e di una storia, restando in attesa che una nuova scena alternativa e “giovane” potesse affiancarsi ai big, che pian piano si congelavano nelle loro posizioni musicali. Quel vuoto momentaneo è stato parzialmente colmato da molti recenti artisti (Ken Vandermark e tutte le sue bands, gli strumentisti di Brotzmann, tutta la scuola di Rob Mazurek) riportando alla luce un certo jazz d’annata riferito agli umori musicali tipici della città: da sempre immersa nel blues e nel soul, il jazz moderno di Chicago tende oggi a riscoprire le sue tipicità, meditando sulle innovazioni degli incroci con la musica classica, una circostanza che ha coinvolto (e coinvolge ancora) cascami creativi del movimento AACM e dei suoi rappresentanti. Avevo già allertato in un post precedente sulla valenza dei nuovi talenti della città; in questi giorni sono stati pubblicati i nuovi lavori dei sassofonisti Dave Rempis, Matana Roberts ed Aram Shelton, artisti che indicano che il percorso intrapreso dai musicisti di Chicago è piuttosto univoco nel battere i sentieri del free jazz, ma mostra anche una rinnovata freschezza compositiva costituita principalmente dalla fattezza artistica dei musicisti.
Dave Rempis si sta ritagliando un proprio spazio grazie a quella forza timbrico-ritmica tipica delle cavalcate “free”: il suo è un vero e proprio blues “notturno” carico di quella magia che ha riempito l’immaginario espressivo del free jazz più godibile; “Parade Montreal” (con il Percussion Quartet) lo vede suonare con Ingebrigt Haker Flaten al basso e con i due batteristi Tim Daisy e Frank Rosaly, con i quali Rempis ha già collaborato in passato con alcune validissime prove, riportando alla memoria quei vecchi album di free jazz che si componevano di una/due lunghe suites in cui liberare tutta la visceralità e la propulsione di un linguaggio: un piacere per l’ascolto! Di Rempis vi consiglio (escludendo la sua partecipazione ai progetti di Ken Vandermark nei V e Territory Band) “Out of season” del 2004 su 482 R. e la collaborazione in duo con Tim Daisy “Back to the circle” del 2005 per Okka Disk.
Matana Roberts pubblica invece dopo il suo “Chicago Project” del 2008 registrato in un perfetto momento di intensità strumentale, (uno dei prodotti migliori della nuova ondata di musicisti di Chicogo), un “Live in London” che raggiunge un livello di improvvisazione nettamente più informale. La sassofonista di colore americana, sulle cui qualità stilistiche non si discute, è molto ben vista anche negli ambienti più avanguardistici della comunità musicale di Chicago e non solo perchè essendo parte dell’AACM ne costituisce un portavoce, ma anche per la bellezza instrinseca delle sue composizioni. Le sue collaborazioni trasversali dimostrano inoltre una preparazione adeguata alle nuove sfide che il jazz deve fronteggiare: i suoi ultimi tours (anche in Italia) presentati con la dedica “Coin Coin”, la presentano con una veste multimediale, con spazio per l’improvvisazione casuale alla Cage, con la partitura di Braxton e dei loro rapporti con il mondo delle arti visive.
Aram Shelton invece pubblica il suo terzo disco per la Clean Feed Records “There was...” che si inserisce nella vena stilistica di Ornette Coleman con un grado di blues in più. Coordinatore di molti progetti musicali tra i quali spiccano i contenuti innovativi delle registrazioni elettroacustiche, in questo lavoro recupera una dolcezza che nell’improvvisazione free sembrava essere perduta.