Uno degli strumenti più amati dai musicisti (specie quelli jazz) è sicuramente il contrabbasso: come la storia insegna, lo stesso fu oggetto di attenzione già nell’epoca classico/romantico e produsse alcuni grandi virtuosi dello strumento; tuttavia si trattava di una mera progressione di note che si riconduceva molto al suono del violoncello (pur essendo timbricamente diversi). Gli episodi uniti al piano di Dragonetti e Bottesini, la “Trota” di Schubert, il settimino di Saint-Saens, l’amalgama nei quartetti di Dvorak, costituivano tutti esempi di utilizzo misurato e contestualizzato del contrabbasso. Le prime considerazioni sulla diversità e sulle possibilità espressive dello strumento vennere effettuate nel nuovo secolo (novecento): qualche avvisaglia provenì da Hindemith con il suo lavoro specifico, ma sia il movimento impressionista che quello espressionista aveva cominciato a prendere in seria considerazione pizzicati, glissandi, vibrazioni armoniche che andavano oltre il semplice schema melodico proposto attraverso l’arco. Questa differenziazione entrerà nella composizione seriale ed influenzerà ancora più direttamente le generazioni di compositori appartenenti all’area baltica, con particolari approcci effettuati da Tubin, Nordheim, Hedstroem, etc., dai russi Gubaidulina, Schnittke, etc. e dai tedeschi Henze e Stockhausen.
Comunque, con il verificarsi della fine della seconda guerra mondiale e l’imporsi delle teorie moderne, scoppierà quel “tappo” che teneva chiuse le idee e le nuove impostazioni da seguire: cominciò Jacob Druckman che nel 1969, spostò (in chiave solistica) l’utilizzo convenzionale dello strumento, cominciando a prendere in considerazione altri aspetti che riguardavano le modalità di atteggiamento verso il contrabbasso: qui il basso veniva esplorato nelle sue capacità percussive e musicali alle quali veniva unito un linguaggio rafforzativo fatto di sussurri, grida e tanta improvvisazione; ma le vere rivoluzioni provennero dalla “causalità” delle teorie di Cage che con il suo Ryoanij del 1983 produsse un balzo nelle menti degli operatori con un lavoro a carattere minimale, ma totalmente in linea con le sue più enigmatiche opere, poi da Giacinto Scelsi che unì a quel timbro grave una ricerca estrema di punti di contatto con la spiritualità orientale, ed ancora da Xenakis che con Theraps dimostrò che era possibile comporre utilizzando frequenze intermedie dello strumento sul quale fino ad allora era quasi disumano chiedere di più. Ma i microtoni interessarono anche il campo orchestrale: Ligeti fece sporadici tentativi per allargare anche al contrabbasso il concetto di micropolifonia ed invero i cluster da lui usati saranno l’idea dominante di molti compositori classici che sfrutteranno tecniche estese delle più varie per raggiungere l’obiettivo. Ma anche molti musicisti jazz saranno investiti di questo patrimonio complessivo che uniranno alla loro propensione jazzistica di tipo “free” (vedi Joelle Leandre, William Parker, etc.) compiendo un tracciato di trasversalità tra generi di cui ancora non si vede la fine.
Invero, è il jazz che dà un contributo elevato all’emancipazione del basso da strumento di accompagnamento a strumento solista, in un percorso che inizia dalle bands di Ellington e finisce la sua prima parte nei trii di be-bepop dei quaranta/cinquanta. (vedi Blanton, Ray Brown, etc.) Tutti questi bravi solisti furono la base di preparazione per la prima grande evoluzione del contrabbasso: Charlie Mingus creò la prima miscela compositiva che tiene in considerazione non solo l’aspetto ritmico del contrabbasso (spesso incastrato in un’ambito orchestrale) ma anche quella “fisicità” che diventerà poi completa nelle decadi successive: il suo basso esuberante ed esplicativo del walking, influenzò tutta la serie di jazzisti che intraprenderanno il corso free del genere, da Haden a McBee, etc.. e questo movimento si contrappose all’altra grande tendenza di quegli anni, quella della “composizione spontanea”, oggetto del lavoro dei contrabbassisti uniti dalla filosofia di Bill Evans che nel trio vedeva possibilità di dialogo ed interazioni in un’ambito dove il contrabbasso aveva pari dignità del piano o della batteria: a questa linea di pensiero aderì il compianto Scott La Faro e tutti i suoi successori con Evans (Chuck Israel, Gary Peacock, Eddie Gomez, Marc Johnson).
La terza grande novità nel contrabbasso jazz fu quella di Pastorius e del suo basso elettrico: qui in verità molti vedono una forzatura poichè in realtà Jaco usò uno strumento diverso da quello che tradizionalmente veniva usato negli ambienti musicali: tuttavia il tipico approccio jazzistico accomuna le due ipotesi e rende difficile una separazione. Se tenessimo in mente tutte le modificazioni storiche apportate allo strumento nei secoli, dovremmo facilmente accettare anche questa novità; il basso di Pastorius diede vita ad un nuovo linguaggio espressivo dei bassisti che conferì maggiore incisività ad una sua ipotetica “voce”. Il suo esempio fu preso ad imitazione nei settanta da tutti i bassisti “fusion” (Stanley Clarke, Mark Egan, Eberhard Weber, etc.) che con il tempo ne diedero anche delle varianti (vedi per esempio il particolare status espositorio di Marcus Miller). Ma in verità è vistoso l’esaurimento di nuove forme stilistiche che possono ricondursi al jazz.
P.S. Una dimenticanza importante che mi è stata fatta notare dal contrabbassista statunitense Daniel Barbiero: tra i pionieri dello strumento va sicuramente menzionato Bertram Turetzky che è stato il veicolo di molte partiture di grandi compositori moderni: come giustamente Daniel sottolinea il suo “The contemporary contrabbass”, in cui Turetzky esegue tre brani scritti da Cage, Oliveros e Ben Johnston, può considerarsi la bibbia del basso (le opere risalgono intorno al 1955), ma Turetzky ha scritto molti brani autonomi con una discografia vastissima (vedi una ricostruzione su wikipedia) con molti LP introvabili.