Prodromi di maturità del folk-jazz d’autore dei sessanta

0
418
Tim Buckley, Fillmore East, October 19, 1968 - Source https://www.flickr.com/photos/grantdabassman/2058911970/ Author Grant Gouldon CC-BY-SA Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic license.
Se nel jazz le affiliazioni con il mondo della classica iniziarono grazie ai movimenti “third stream” degli ensemble di Brubeck e Lewis (Modern Jazz quartet), nel rock, il jazz si insinuò in varie modalità; tra queste una delle più interessanti e complete fu quella attuata da uno sparuto gruppo di cantautori che in verità erano degli ispirati interpreti di una realtà musicale ben più complessa. Artisti come il Van Morrison di Astral Weeks, il Tim Buckley di Happy Sad e successivi o il Five Leaves Left di Nick Drake furono alcuni dei picchi massimi che la storia del rock abbia mai conosciuto in virtù del fatto che gli stessi intuirono che una delle migliori modalità per emergere dalle convenzioni dei generi era affrontarle e sistemarle musicalmente attraverso una piena esposizione del proprio carico “interiore” di espressione. Uno di quei concetti che dovrebbero essere ricordati alle nuove generazioni che spesso hanno poco da comunicare. Quegli anni furono quindi caratterizzati anche da una modificazione genetica del folk di Dylan, che lasciò da parte gli istinti profetici, prendendo in considerazione in maniera più diretta l’animo umano e soprattutto dando voce alle sue debolezze: il “folk jazz” così come predicato dalla critica di quei tempi in realtà avrebbe potuto caratterizzarsi anche per la commistione con altro genere, la classica, per via soprattutto di molti arrangiamenti ai violini che riproponevano l’austerità e le ambientazioni di quel genere: si creò un formato canzone (anche di una certa consistenza in termini di durata) che metteva assieme subliminali forme di poetica letteraria con i generi più colti ed emancipati che la musica avesse sperimentato.
Il primo ed insuperato album di Van Morrison “Astral Weeks” ne costituisce un’esempio: l’artista irlandese ripeterà quell’esperienza solo parzialmente (direi molto parzialmente) nel successivo “Moondance” che si indirizzava verso un “pastiche” che costruiva canzoni nell’ambito delle influenze americane (soul, blues, etc.) e, con minore intensità, nel 1975 con l’episodio di “Veedon Fleece”. Così come pieno di arrangiamenti cameratistici si rivela lo splendido e dimenticato esordio di Nick Drake “Five leaves lefts” che riporterà in armonia il rapporto tra il folk e la musica classica, certo in un ambito profondamente cosciente della difficoltà dei sentimenti da esprimere, ma sempre rispettando quel rapporto che io chiamo sempre di “dolce malinconia”: Drake può essere considerato sicuramente un precursore di molta musica “depressa” che oggi ha preso pieghe forse troppo in linea con i messaggi da trasmettere. L’artista inglese al secondo tentativo discografico, lasciò l’istinto di programmazione classico per abbracciare quello jazzistico in “Bryter layter”, dando forse l’impressione di una ricerca più evanescente, idea però errata se si pensa che la proposta si immergeva in un folk di elementi transgeneri che stavano già colpendo le fasce dei cantautori di quegli anni (basti pensare alle prime evoluzioni di James Taylor, o al degno successore di Drake scomparso qualche mese fa, l’inglese John Martyn).
Tim Buckley, dopo un esordio non ancora focalizzato, da “Goodbye and hello” si indirizzò anch’egli verso quella pregnante forma musicale di cantautorato musicale, che ebbe il suo primo capolavoro nell”Happy Sad” del ’67, seguito da “Blue Afternoon”, prima che lo stesso si lanciasse nella spettacolare esplorazione vocale di “Lorca” e “Starsailor” (veri e propri albums di “free” folk): in “Happy Sad” sembra realmente che il tempo si fermi, quegli impasti di chitarra, vibrafono e sezione ritmica jazzy, donano “rilassate” visioni del triste destino dell’uomo, di quello sensibile ed incapace di esprimersi se non attraverso la musica. Se Van Morrison spostò quasi subito la sua carriera verso un sound che miscelava “spiritualità” e musica di più basso profilo, Buckley e Drake pagarono con la loro vita quella coerenza e quell’isolamento; ma al di là dell’esperienza “mitologica” che molti vogliono riconoscere a questi artisti (specie quelli deceduti) quello che rimane oggi a distanza di quasi 45 anni è uno stile, un modello di pensiero che i giovani di quelle generazioni avevano ben presente e che si riconosceva in un approfondimento “letterario” delle vicende umane, un’arte basata sulle loro più profonde convinzioni, la ricerca filosofica di un ideale scrigno di comportamenti dove la musica fosse adeguatamente all’altezza dell’aspetto intelettualizzato.
Articolo precedenteIl contrabbasso nell’era moderna (tra classica e jazz)
Articolo successivoJon Irabagon: Here be dragons
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.