Il sassofonista filippino naturalizzato a New York, Jon Irabagon è venuto alla ribalta della cronaca grazie ad un concorso del 2008 dedicato a Monk, in cui l’artista, giudicato da una commissione stellare (Wayne Shorter, Greg Osby, Jane Ira Bloom tra gli altri), si guadagnò un contratto discografico e un pò di fama e denaro; personaggio all’apparenza eclettico ….”..c’è un sacco di gente che si chiede come possa piacermi allo stesso tempo suonare standards e dedicarmi al free-noise più estremo…”, Irabagon ha da sempre incrociato musica “mainstream” delle migliori fattezze (con brani da lui composti) con un free jazz spesso di difficile collocazione (tra i suoi progetti la partecipazione al gruppo Mostly Other People Do the Killing). “Outright” e “I don’t hear nothing but the blues”, episodi pubblicati per la Innova Records, svelavano già un professionista dello strumento che grazie all’ausilio di tempi ritmici al confine del jazz di ascendenza blues e di scale più avventurose, riusciva a fornire un prodotto perfettamente in linea con quella irreprensibile voglia di costruire a tutti i costi qualcosa di nuovo che non c’è. Il cd derivante dal contratto vinto per il premio Monk, “The Observer”, poi realizzava a caratteri cubitali quella capacità di replica dei bei tempi che furono per via del mostruoso aggancio stilistico a cui faceva riferimento: insomma grande slancio tecnico, perfezione formale, ma se lo ascoltassimo senza sapere che prima di lui ci sono stati Coltrane e Rollins, lo confonderemmo con questi. “Foxy” (con una copertina ambigua che in verità fa pensare a Papetti), è stato il suo sforzo “free”, una dimostrazione di efficacia strumentale, con un continuo ripetersi di assoli in asse, che danno l’idea di qualcosa di granitico, senza pause, che quasi si fa fatica a pensare che il musicista possa avere tanto fiato in corpo; e se quell’idea di libertà alla fine risulta un pò affaticante per l’ascolto (che avrebbe bisogno di pause nell’arco di 78 minuti) dà comunque la dimensione esatta dell’artista per quanto riguarda l’aspetto “tecnica”.
“Here be dragons” è accreditato ad un gruppo di musicisti dell’area di New York, in realtà sembra tanto un suo disco ben mascherato: si pone nella falsariga di “The observer”, è ben suonato ma scatena (almeno in quelli come me) il pensiero che la sua ricerca di coniugare periodi stilistici diversi del jazz sia un tantino in difetto di originalità e che forse sarebbe ora di fare un disco in linea come tanti colleghi della sua generazione che hanno “rischiato” un proprio suono attraverso la confluenza dei generi di formazione. Però la valenza tecnica di Irabagon e il suo moto perpetuo sono fuori discussione.
Discografia consigliata:
-I don’t hear nothing but the blues, Innova 2008
-The observer, Concord 2009
-Foxy, Hot Cup R. 2010