Nils Petter Molvaer

0
465
Nils Petter Molvaer at moers festival 2006 own photo, june 4, 2006- photo: nomo/michael hoefner - Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 2.5 Generico
Il debutto ECM “Khmer” di Nils Petter Molvaer può considerarsi uno dei primi esperimenti del nu-jazz, cioè di quell’improvvisazione jazz fusa con l’elettronica: questo lavoro, per la prima volta, dà però un posto paritetico agli elementi sonori non strettamente jazzistici: in una sua intervista a AAJ Molvaer spiegava la genesi di questo disco: “… ho avuto l’idea di fare qualcosa di mio, e avevo in mente qualcosa che riflettesse la musica che mi piaceva ascoltare, che mi aveva colpito e ispirato. Ad esempio l’album di Brian Eno e David Byrne My Life in the Bush of Ghosts (Sire Records, 1981), ma anche molte delle cose ambient che faceva Brian Eno, oltre ai musicisti che produceva, come il chitarrista Michael Brook. C’era un disco che ha rappresentato molto per me intitolato Hybrid (EG Editions, 1985), con Brook, Daniel Lanois e Eno. Basterebbe l’atmosfera dell’album. Certo, anche la musica era importante, ma l’atmosfera era incredibile. E poi altre cose come il pianista Harold Budd con il disco The Pearl (EG Editions, 1984), anche questo con il coinvolgimento di Eno. Così come Fourth World, Vol. 1: Possible Musics (EG Editions, 1980) di John Hassell. Non appena l’ho sentito, le cose che sognavo di fare alla tromba mi sono immediatamente sembrate possibili. Oltre a questo ascoltavo molta world music, mediorentale e africana…..”

“Khmer era esattamente tutto questo: nessun formidabile assolo, nè tanto meno jazz da ascoltare in modo convenzionale; Molvaer riprendeva il sound siderale della tromba di Miles Davis o quello da quarto mondo di Hassell e li utilizzava come ingredienti da affiancare a beats possenti, elettronica al limite della dance, sequenze di ambient music e tracce del Peter Gabriel di “Last Temptation of Christ”. La bravura di Molvaer sta nel saper risaltare “stordimenti” musicali pieni di influenze, come in un violento flashback di ricordi. In alcuni momenti ci si chiede se questo sia ancora jazz, se ne abbia ancora le caratteristiche (Molvaer rifiuta definizioni inerenti), si potrebbe obiettare che qui si privilegia l’aspetto compositivo e non quello strumentale; il jazz è inteso da Molvaer come spirito improvvisativo e veicolo per una forma architettonica moderna di suono. Se il discorso lo prendiamo dal punto di vista della composizione, comunque Molvaer si caratterizza per un suo suono comune e diverso dagli altri trombettisti che hanno seguito percorsi paralleli (Arve Henriksen, Ben Neill, etc.): comune perchè nordico nella sua essenza, diverso perchè immediatamente distinguibile. Il suo è il tentativo di affermare la “timbricità” dei suoni, così come avvenuto dapprima nella musica classica moderna, poi nel jazz elettrico Davisiano, ed infine con tutto il movimento dell’ambient e delle sue sfaccettature (comprese le implicazioni dance), con una prerogativa in più, ossia quella di cercare di mantenere lo sfondo melodico su un piano privilegiato. In questo si distingue dai trombettisti che fondano il proprio lavoro su una elettronica vicina ad un jazz più convenzionale o quelli che al contrario calcano la mano sul potere dell’atonalità, delle dissonanze e del rumore. Molti appassionati obietteranno che sono esistiti ed esistono trombettisti di valore che suonando ad alti livelli tecnici e con un substrato di elettronica diverso, riescono a produrre risultati emotivi ed “ambientali” identici (si pensi al trade d’union che va dai gruppi di Sun Ra a quelli odierni di Rob Mazurek): penso che il problema non si ponga poichè si tratta di esaminare oggetti di diversa natura: potreste snaturare l’ambient music, così come rigorosamente intesa da Eno, con una tromba che snocciola assoli free anche dissonanti? Caderemmo in un problema opposto.“Baboon moon” acclara definitivamente la transizione iniziata con “Hamada” di un spostamento del trombettista verso un minore uso del “beats” sound a vantaggio di un uso più robusto delle chitarre: Stian Westerhus (che sostituisce uno dei suoi più fedeli collaboratori, Aivind Arset) conferisce, nell’ambito della ormai nota costruzione sonora tra strumenti e tecnologia, aspetti “psichedelici” memori di un feeling chitarristico tra Hendrix e Torn.

 
Discografia consigliata: (no gruppi e collaborazioni)-Khmer, Ecm 1998-Solid Ether, Ecm 2000-NP3, Emarcy 2002-Er, Thirsty Ear, 2005-Hamada, Thirsty Ear 2009
Articolo precedentePeteris Vasks
Articolo successivoI cosmic lieder di Darius Jones
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.