Tra i giovani sassofonisti alto di New York, il trentaduenne di colore Darius Jones già riveste un posto importante: non solo per la stima che già nutre nei confronti di tanti suoi colleghi e giornalisti di settore, ma soprattutto perchè a suo modo sta cercando di ridefinire in maniera originale il passato jazzistico. E’ quello che Vijay Iyer, Rudresh Mahanthappa, e tanti altri da me segnalati anche su questo blog, stanno cercando di fare per mantenere viva la scena attuale. Jones, che ha esordito nel 2009 con l’album “Man’ish boy“, è un uomo del sud che conosce a meraviglia il lessico “bruciante” del sassofono jazz: il suono è free e “lazy” all’occorenza, è forte e passionale (soulful), graffiante con divagazioni personali che riportano alla mente tanti pezzi musicali di coloro che hanno fatto la storia dello strumento. In questo 2011, Jones pubblica due registrazioni: una è il seguito dell’esordio su Aum Fidelity, “Big gurl (smell my dream)” e l’altro sono una serie di duetti con il piano di Matthew Shipp, “Cosmic Lieders“. Se “Big gurl…” è una perfetta prosecuzione delle idee di “Man’ish boy” ed entra prepotente nelle nostre cognizioni di ascolto, “Cosmic Lieders” dovrebbe essere una risposta jazzistica ai lieders di classica memoria: il sax di Jones teoricamente sostituirebbe la voce del cantante di turno, cercando contemporaneamente nella composizione il mantenimento di una sua “cantabilità”: il risultato è decisamente positivo e quello che si realizza è un affascinante incontro tra due jazzisti che odora di “classicismo”, una sorta di avanguardia free jazz che pensa e si sviluppa emotivamente come i lieder tedeschi, con una sola differenza che quei canti non avevano nulla di cosmico essendo nati per esprimere relazioni d’amore o espressioni letterarie. Ma anche con la consapevolezza di esternare le ragioni dell’anima, scopo che sembra anche quello perseguito da Jones e Shipp, seppur in un àmbito cosmopolita.