Trombettista americano trentottenne, Nate Wooley negli ultimi tre anni sta acquisendo una maturità artistica che agli esordi era solo paventata: improvvisatore jazz (fondamentalmente free, ma con frequenti accenti boppistici), ha costruito le sue prime esperienze con alcuni gruppi letteralmente sconosciuti anche alla platea degli appassionati (Sangha Trio, Blue Collar, Mèleè, nonchè i Transit, che si configura come una delle sue migliori aggregazioni): questa fase dedicata al jazz e ad un approccio spiccatamente avantgarde (che lo pone tra il free jazz del Wadada Leo Smith prima maniera e l’Evan Parker più asettico), dimostra come Wooley abbia sviluppato i propri riferimenti stilistici in rapporto alle modalità con cui suona lo strumento: la difficoltà di avere una voce chiara e distintiva all’interno di un settore dove è quasi praticamente impossibile esprimere una propria personalità, viene da Wooley evitata attraverso un rimarcato ricorso a tecniche estese e a sperimentazione con amplificazione leggera. In pochi anni il trombettista ha anche il tempo di dedicarsi a particolari collaborazioni (in duo o in trio) con altri artisti che condividono quell’approccio e che cercano di creare qualcosa di nuovo svincolandosi dai canoni ordinari del metodo, trovando conforto nelle estensioni timbriche che la tromba può consentire. Nel 2011 Wooley ha pubblicato almeno 4 album importanti che segnano dei chiari cambiamenti di rotta nella direzione della sua musica:
1) il quintetto di “(Put your) hands together” con Josh Sinton al clarinetto basso, Matt Moran al vibrafono, Eivind Opsvik al contrabbasso e Harris Eisenstadt alla batteria, mette assieme non solo alcune delle migliori promesse attuali del jazz, ma rappresenta anche il suo primo tentativo di rendere più accessibile il suo jazz fatto di scatti imperiosi, di velocità e spesso di grinta quasi rabbiosa.
2) la collaborazione con l’altro trombettista pirotecnico Peter Evans, “High society”, che lo vede affrontare in maniera ancora più radicale del solito il panorama della sperimentazione estrema in un modo simile a quello che Evans aveva fatto nel suo disco in solo “Nature Culture”: siamo nei territori di Evan Parker ma con un grado di distorsione maggiore che metterebbe in crisi qualsiasi recensore.
3) il solo “Trumpet/Amplifier” utilizza ancora l’amplificazione, ma nella lunga “Amplifier” si scopre un nuovo contenuto per la tromba che cerca di ottenere un’intrinseca proprietà sensitiva, collegando il rumore prodotto in distorsione ad una sorta di accattivante proliferazione di elementi allucinogeni da concret music.
4) “The Almond”, una lunga suite di 25 minuti, sviluppa proprio quell’ultimo concetto, portando a Nate i semi per effettuare una esplorazione del suono di tipo subdolamente ambientale: nello specifico non viene usata la distorsione, ma solo una serie di sovraincisioni della sua tromba (registrata in modi e posti diversi) che producono un vero e proprio drone derivato dalla tromba, con delle leggere modificazioni nello sviluppo del tema che evitano di pensare a reiterazioni fastidiose; anzi la seconda parte del brano mette a dura a prova qualsiasi ascoltatore per l’intensità utilizzata.