Uno dei più originali sassofonisti degli ultimi anni viene dal Canada: François Carrier, molto considerato dalla critica jazz, discende in via generale dall’impianto stilistico di Coltrane (e sue diramazioni free), pur distinguendosi per una sua visione musicale più intima e basata spesso su quell’interplay con altri musicisti, che è oggi è mal praticato o completamente orientato ad altri obiettivi. Coltrane, Henderson, Bill Evans e tanti altri ne facevano una ragione essenziale della loro musica, poi i tempi sono effettivamente cambiati, e nonostante tutte le repliche che abbiamo dovuto assorbire nel tempo, pochi sono stati i musicisti che realmente hanno saputo elevare ad arte quella simbiosi tra musicisti. Carrier, attivo da molto tempo, ma che solo a metà anni novanta ha cominciato a pubblicare dischi a suo nome, si pose all’attenzione del mondo jazz con un premio vinto con il suo disco per la denutrita etichetta Naxos Jazz, ossia “Compassion”; se è opinabile si può considerare quella scelta, nulla si può oggettivamente argomentare in senso negativo per le sue dinamiche collaborazioni con Uri Caine e un gruppo di connazionali fidati tra cui il batterista Michel Lambert e il bassista Pierre Cote (vedi “All’alba” e il trio di “Play”) e soprattutto devono essere ricordate le registrazioni di “Traveling light”, lavoro improntato ad una personale riflessione della globalità geografica, con Paul Bley e Gary Peacock sugli scudi (che donano anche proprie composizioni): è in questi dischi che Carrier risalta le sue doti di fantasioso performer, che pur attingendo ad un universo sonoro che aveva già avuto i suoi rappresentanti nel passato, riesce alla fine a comporre un prodotto di qualità al confine tra il bop e il free meno esasperato, con chiaroscuri “cool” e con tanta voglia di riesumare le emozioni “semplici” che le singole note di un sax hanno da sempre intrinsecamente procurato. Il canadese poi, parallelamente e sempre con Lambert al fianco, ha cercato nuove soluzioni ispirate e per un paio d’anni ha virato verso gli episodi di “Kathmandu” e “Nada” in cui sembra essersi esplicitata quella qualità “etnica” posseduta dalla sua musica, con un interessante immersione nel patrimonio musicale Nepalese; inoltre, nell’ambito dei progetti dell’artista ci sono un timido avvicinamento alla dimensione cameratistica ed austera della classica nell’esperienza di “Happening”, dove decisivo e sostitutivo è l’apporto di Maneri al violino, nonchè i duetti sax e voce con la cantante Veronique Dubois (vocalità condivisa tra teatro sperimentale ed avanguardia vocale) che costituiscono probabilmente il versante più sperimentale delle sue collaborazioni, con Carrier attento a costruire un dialogo inter-relazionale votato alla ricerca di un emotività nascosta che forse aveva bisogno di un miglior congegno di presentazione. Bistrattato oltre misura dalla critica per queste sue deviazioni “difficili” e “incomprensibili”, Carrier ha comunque sempre dimostrato notevole tecnica e capacità di adattamento, sebbene queste forme di collaborazione a vario titolo sembrano incursioni temporanee nell’attività artistica del sassofonista canadese, che con la dimensione dal vivo (suona assieme ad uno dei suoi modelli Dewey Redman in “Open spaces”) e le formazioni in trio o al massimo in quartetto, rappresenta la sua principale prerogativa.
“Entrance 3“, un concerto registrato a Vancouver nel 2002 con la presenza di Bobo Stenson al piano, è oggetto di un disco che riporta in vita alcune composizioni di “All’alba”, diversificandole ed improvvisandole opportunamente: ne deriva probabilmente uno dei migliori dischi della sua carriera, un netto miglioramento rispetto alle registrazioni di studio, dove si apprezza in pieno l’interplay dinamico tra i musicisti e risalta in maniera evidente la bravura e liricità del sassofonista alto.
Discografia consigliata:
-Trio with Uri Caine, Justin Time, 2003
-Traveling light, Justin Time, 2004
-Play, 482 Rec., 2004
-Open Spaces, Spool 2006
-Kathmandu, 2007
-Entrance 3, Ayler R., 2011