Agli inizi del novecento Cowell, Rudhyar e gli ultramodernisti americani posero le basi per un movimento “classico” tutto statunitense; in particolare, Cowell creò di fatto la composizione world ispirandosi ai suoni che percepiva nei suoi continui viaggi culturali nel mondo: tra i pochi compositori in grado di avvicinarsi al suo pensiero musicale, troviamo Peter Garland, un suo degno continuatore, diviso tra lo scopo etnico e il trattamento musicale, che risente della formazione “minimalista” di Tenney e Budd. Peter Garland è un compositore unico nel suo genere, poichè il suo minimalismo “descrittivo” è così accessibile da avere dei dubbi sul carattere innovativo della proposta, ma allo stesso disarmante ed efficace nella sua semplicità di formula. In verità Garland dovrebbe essere considerato un post-minimalista ed in effetti lo è se pensiamo alla confluenza degli elementi di origine etnica: da sempre appassionato della musica ispanico-messicana, delle Americhe minori (quella centrale e quella nord settentrionale), nonchè della musica dei nativi americani, Garland è stato in grado di creare un suo marchio capace di descrivere, con gli strumenti figli della modernità, la voce e le culture dei popoli; è come se folgorato dalle visioni di quei posti e di quegli uomini, ne avesse sviluppata una in cui il racconto, gli usi o le abitudini sono condensati nella scrittura, ma con un ulteriore passaggio creativo dovuto al fatto che la sua non è una scrittura che segue emotivamente le situazioni, anzi è un superamento di esse, poichè il dolore, le amarezze, la solitudine celate nelle storie, vengono sempre espresse con la sensazione del “ricordo”, quella sorta di transmutazione positiva che caratterizzava la teoria di Rudhyar (Garland gli dedicherà anche un movimento del primo string quartet); è quello che succede in “Walk in Beauty”, in quella prospettiva magica del ricordo che acceca qualsiasi dolore. Il suo è chiaramente un minimalismo adattativo, che spesso fa uso di reiterazioni che provengono quasi naturalmente dalla cultura orientale: se non ci fosse stato La Monte Young e la sua teoria organica!!….., ma Garland ha anche affrontato forme poetiche dell’Oriente, come succede nelle Renga giapponesi.
Altro aspetto importante è il riferimento “percussivo”: sia negli episodi di “The Three Strange Angels” che in molte composizioni da filtro a consuetudini o rituali delle etnie richiamate, Garland usa magnificamente il piano a supporto in maniera rafforzativa oppure si spinge, nelle percussioni, (anche quelle di tradizione locale) con suoni che vanno da soluzioni “estese” alla Cage o Partch o dinamicamente “orientalizzate” alla Harrison. I quartetti d’archi registrati nel 2009 spostano sulle corde le tematiche già vissute al piano: sono anch’esse formazioni culturali “gentili” da ascoltare con un senso di positività, specie il primo string quartet vive di una leggiadra elegia compositiva che ne fa uno dei migliori quartetti degli ultimi anni e del minimalismo intero. Quindi un “vero” compositore americano di quelli che uniscono passato e presente e sulla cui vena è impossibile dubitare: l’ultima registrazione su cd per la New Wordl Records, “Waves breaking on rocks” (con il piano suonato sempre dal fido Aki Takahashi) è una nuova delicata cartolina di ricordi, che si affianca alle sue opere migliori, mentre decisamente più sbilanciata sul versante etnico è la composizione dedicata a Roque Dalton, poeta del Salvador caduto durante gli scontri civili del ’75.
Discografia consigliata:
-Three strange angels, Tzadik 2008 (ristampa di On the border, OO Disc 1992)
-Walk in Beauty, New Albion 1992
-String quartets, Apartment House, Cold Blue Label, 2009