Tra le poche compositrici giapponesi che dopo l’approfondimento in Europa dello studio della musica contemporanea è tornata a comporre nella sua patria, Mari Takano rappresenta un’esempio pregnante di polistilismo allargato: nonostante la stampa e lei stessa la releghi nelle visuali artistiche di Ligeti, la Takano ha probabilmente sviluppato uno stile personale che è profondamente innamorata delle interazioni della classica occidentale con quelle della sua cultura, del jazz, dell’elettronica, riuscendo con molta spontaneità a costruire un prodotto che è semplice e “intelligentemente” complicato allo stesso tempo, che non è il prodotto post-Takemitsu (almeno questo è quello che le fonti di informazione fanno risaltare); per avere un’idea piuttosto completa della sua musica, basta riferirsi ai suoi due dischi per la Bis Records: il primo, pubblicato nel 2002, “Woman’s Paradise – A portrait of composer Mari Takano” conteneva in maniera sufficiente ampia i suoi interessi musicali. I quattro movimenti del tema principale si basano su una positiva correlazione tra le voci che spaziano tra il lied e il generico canto e la strumentazione che seguendo un copione non tanto scontato, ci proietta in parti equilibrate nei generi succitati: i sax di “Casablanca” nel jazz o l'”Abandon” nell’elettronica e nei sequencers; mentre in “Mugen No Tsuki – Mugen No Hoshi” gli strumenti tradizionali giapponesi ci riportano splendidamente nelle musiche tradizionali del Giappone, di fianco ad un contorno di violini est-europeo. Anche i due lied (“Two chansons” e “Blumen-aire”) emanano un profumo di romanticismo cortesemente arricchito da fattori tradizionali e una moderna evocatività alla Schoenberg, merito anche dei coautori dei testi; la splendida “Innocent”, al piano solo, è la sponda più vicina al jazz senza barriere infarcito da una costante melodia giapponese.
“LigAlien” è il suo secondo disco pubblicato qualche mese fa: la Takano ricompone una sorta di raccolta delle sue composizioni significative degli ultimi anni: compaiono i quattro movimenti di “LigAlien” così chiamato per rimarcare il suo affetto per Ligeti (Lig è l’abbreviazione del compositore ungherese mentre Alien è il suo ego che si innesta in maniera aliena nella scrittura di Ligeti); in questi è evidente il suo polistilismo che stavolta si miscela a turno non solo con il grande ungherese, ma anche con Stockhausen, Schoenberg o Jarrett: ne esce fuori un’esperimento diverso dai porti sicuri di “Woman’s Paradise” con un’evidente spostamento dei baricentri compositivi in territori più “rischiosi” con un approccio musicale “misto”, ugualmente di spessore, ma che è come quei farmaci sperimentali che mettono assieme più sostanze per avere un’efficacia migliore: sebbene anche il resto sembra lontano dalla selezione di “Woman’s Paradise”, non si può negare la creatività raggiunta della compositrice giapponese.