Per impegni personali la mia partecipazione a Milano per i tre giorni del festival JazpItaly, confluenza di un ipotetico gemellaggio tra jazzisti italiani e giapponesi, è stata confinata nell’ultima giornata della manifestazione; qualche lettore che aveva presenziato le precedenti serate sembra aver avuto un’ottima impressione. Domenica 27 il centro congressi Corridoni era sovradimensionato rispetto al pubblico in sala, ed io spero che le donazioni siano sufficienti, perchè la mia impressione è stata quella di un pubblico d’èlite basato sulla conoscenza forse anche diretta dei musicisti del cartellone.
Nell’ultima giornata del benefit è stata la presenza giapponese a farla da padrone: il primo show vedeva sul palco un quintetto regolato dal sassofonista Sadao Watanabe, con il trombettista Tiger Okoshi, Onozuka al piano (tra i nipponici) e completato da Luca Pissavini e Cristiano Vailati alla ritmica: il set è stato improntato alla rivisitazione di standards jazzistici (opera in cui Watanabe e Okoshi mostrano di incrociare bene i loro percorsi attuali) che sono culminati con una sorprendente versione unificatrice del “Và pensiero” di Giuseppe Verdi.
Ancora più interessante lo spettacolo dei misconosciuti (per me) chitarristi Hideshi Takatani e Masa Oya che hanno suonato assieme alla pianista Mami Ishizuka (anche eterea vocalist), al maestro shakuhachi Daiyoshi, e ad una sezione ritmica in cui stavolta il contrabbasso di Pissavini si univa con la batteria di Tommaso Cappellato (due musicisti italiani che vanno approfonditi): Takatani, persona simpaticissima, con una satira rigorosamente giapponese (ma piuttosto universale in alcune espressioni) ha tirato fuori un set che io definirei “japanese psychedelic jam”: se non lo sapessi, sarei tentato di pensare di essere davanti ad un gruppo vero e proprio: oltre al naturale affiatamento tra i due chitarristi, sia gli interventi di Daiyoshi (instancabile) che quelli di Ishizuka (in possesso di un’ottimo sound pianistico) si coordinano a vista con lo spirito di Takatani che cerca di tirar fuori una esibizione che è spunto per costruire un prodotto che ha a che fare con le tradizioni del Giappone (stati che forse riflettevano un connubio tra spiritualità e arti marziali).
Akira Sakata, Daiyoshi e Roberto Zorzi completano la manifestazione donando anche le note per le calligrafie di Tetsuo Gyotoku che sale sul palco per spiegare l’origine dei suoi “dipinti”: Sakata è un interprete eccellente del sassofono free e allo stato attuale sembra aver molte più frecce al suo arco di Watanabe; nel suo breve show totalmente atonale e avantguard oscura in intensità sonora il flauto di Daiyoshi, mentre Zorzi si muove musicalmente vicino a certi territori di Derek Bailey. Degna conclusione di un’iniziativa che ha coinvolto anche me: gli unici appunti che mi sento di fare risiedono nella mancanza di una guida appropriata per le traduzioni di Gyotoku (sul palco si è presentata una ragazza che traduceva in un italiano che non era pienamente comprensibile) e in un fastidioso problema di accensioni delle luci in sala durante le esibizioni.
Nelle foto sono con Akira Sakata e Nobu Stowe prima dei concerti