When suddenly Johnny gets the feeling he’s being surrounded by
horses, horses, horses, horses
coming in in all directions
white shining silver studs with their nose in flames,
He saw horses, horses, horses, horses, horses, horses, horses, horses.
tratto da Land: Horses / Land Of A Thousand Dances / La Mer(De)
Ci sono eventi della vita che fanno riflettere. Ci sono uomini o donne inspiegabilmente ignorati che ad un certo punto, per un destino quasi soprannaturale, diventano delle icone e acquistano un ruolo che sembra essere stato riservato a loro fin dall’inizio. Patti Smith è l’incarnazione di questa considerazione che ho appena pronunciato: partita dal nulla, senza denaro e forse senza nemmeno delle idee rigorose, la Smith ha visto cambiare la sua vita con il trasferimento a New York, nella città che contava e soprattutto nell’ambiente che contava: insieme all’amico Robert Mapplethorpe inserisce la sua sfida nelle arti e ne viene assorbita quasi immediatamente. Questa donna rivela un talento che si manifesta nel momento giusto, in quell’America di rinnovamento (sia letteraria che musicale) impersonificata dalla corrente della generazione beat, dalla pop art di Warhol, delle degenerazioni di Lou Reed e dal passaggio carismatico di un personaggio sciamanico come Jim Morrison, dove le nascenti nevrosi vengono espresse con chitarre sfilacciate e con i ritmi grezzi primordiali del rock’n’roll; ma con una novità in più, quella delle arti visive, che prendono in considerazione la fotografia, il cinema, la pittura (ossia il ciclo della multimedialità). Patti, vivendo nel Greenwich Village, è parte di questa comunità bohemienne che poi andrà perduta nel tempo.
Se la premessa è quindi quella della predestinazione, Patti Smith si impone come il nuovo fermento del mondo di quegli anni (settanta) che si dirige alle arti senza condizionamenti; ma a differenza di altre icone della storiografia rock, Patti Smith fa scalpore perchè è totalmente senza controllo nell’espressione, al pari dei suoi modelli letterari (Arthur Rimbaud e Allen Ginsberg), ed è la prima donna a fornire una versione poetico-dissacratoria della realtà. A differenza ad esempio di Dylan, che aderiva ad un linguaggio poetico più ricercato, profetico e incapsulato nel porgersi, la Smith era assolutamente votata ad un’estetica poetica che di fianco al messaggio mistico sapesse esternare le qualità sceniche. E’ un messaggio che sottintende una personale fede religiosa ma che non sa fare a meno di evidenziare le tentazioni dell’uomo e le sue possibili redenzioni in una declamazione straziata (la voce della Smith è unica in questo senso) dell’alienazione della società: è una sorta di presa diretta, un vulcano di emozioni (che la sua visionarietà spezza in quadretti composti) dove l’obiettivo è colpire attraverso l’accrescimento dello spessore degli argomenti e delle figure estratte (vedi i cavalli della citazione sopra oppure il sesso liberatorio, motivo ricorrente in molte parti di “Easter” per esempio).
Sebbene la produzione discografica degli inizi non abbia più avuto degni successori, Patti ha mantenuto sempre il suo carisma di donna totalmente immersa nel suo mondo e non può essere criticabile solo perchè non si è voluta staccare da quella filosofia: il grado di compenetrazione con la realtà musicale si basava anche sull’energia dei temi da proporre e se non c’è dubbio che quella energia punk profusa in gioventù si sia un pò smorzata (per via dei tempi e dell’età), è anche vero che Patti ha cercato di vivere il suo stato virtuoso con una certa coerenza, senza nulla imporre alle nuove generazioni, comunque formatesi sul suo stile: in effetti, dopo quel periodo inimitabile tra “Horses” e “Wave”, è stato difficile trovare replicanti autorevoli, specie nel momento in cui il punk cominciò a perdere interesse nel tempo.
Patti Smith è una delle cellule del rock americano che ha saputo rimettere a posto gli elementi (i Velvet, i Doors, Dylan e gli Stones, gli Stooges), con in più l’arma della recitazione in musica, sia in fase di canto che dello spoken word: quest’ultimo aspetto è importante, è il principale fattore catalizzatore della sua musica, per cui noi oggi le dobbiamo tutti qualcosa come si deve qualcosa ad un grande letterato o pittore; è una recitazione divisa tra elegia, visionarietà descrittiva e senso della prevaricazione sociale, qualcosa che è rinvenibile in tutte le lunghe suites sparse nei suoi albums o nel lavoro completamente dedicato alla spoken poetry (esempio The Coral Sea), una postura artistica che non fa differenza tra passato e presente.
Patti Smith è una delle cellule del rock americano che ha saputo rimettere a posto gli elementi (i Velvet, i Doors, Dylan e gli Stones, gli Stooges), con in più l’arma della recitazione in musica, sia in fase di canto che dello spoken word: quest’ultimo aspetto è importante, è il principale fattore catalizzatore della sua musica, per cui noi oggi le dobbiamo tutti qualcosa come si deve qualcosa ad un grande letterato o pittore; è una recitazione divisa tra elegia, visionarietà descrittiva e senso della prevaricazione sociale, qualcosa che è rinvenibile in tutte le lunghe suites sparse nei suoi albums o nel lavoro completamente dedicato alla spoken poetry (esempio The Coral Sea), una postura artistica che non fa differenza tra passato e presente.
“Banga” continua in quel lavoro di rappresentazione di temi e illustri personaggi che hanno girato intorno al mondo: musicalmente la raccolta prende quota solo con la title-track (che offre uno spunto originale), ma quando siamo già al quinto brano; parlare di rinascita qui mi sembra un eufemismo, una produzione curata (per la prima volta con diversi riferimenti a soluzioni musicali però in stile beatles-iano) e le sue solite avvincenti elucubrazioni (“Tarkovsky”, “Constantine’s Dream”, “Nine”) sono le forze in campo da salvare.
Discografia consigliata:
-Horses, Arista 1975 (il suo capolavoro ed uno dei dischi rock migliori di sempre)
-Radio Ethiopia, Arista 1976
-Easter, Arista 1978
-Wave, Arista 1979
-Gung Ho, Arista 2000
-The coral sea, Pask 2008