Chill-out music

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Inizialmente il termine “chill-out music” era usato come riferimento alle chill-out rooms (le cosiddette camere di decompressione situate nei luoghi moderni di ballo per smorzare gli eventuali eccessi di varia natura); dopo aver ballato “house” sulle piste, quando si affrontavano quelle stanze il ritmo doveva abbassarsi e allora si pensò di creare strutture musicali che avessero caratteristiche da indurre ad esiti più rilassanti e si avvicinassero al tipo di musica più di “relax” che esisteva, l’ambient/new age music (creando di fatto l’ambient house). Perciò lo stesso negli anni successivi è diventato sinonimo di sottogenere musicale avvicinato da molti esperti alle sonorità “downtempo”, dove il termine chiaramente indicava una musica dal ritmo lento, costruita con l’elettronica, quasi al confine con effimeri strati di lounge music o frammenti di ethno beat. In quegli anni si stabilì quindi un’alternativa ritmica all’altro grande filone dance dai ritmi bassi, il trip hop, ma allo stesso tempo si creò uno spartiacque tra i generi ritmici ed in particolare sulla velocità di approccio degli stessi: ci si accorse forse che l’ascolto non era meno importante del ballo. 
Al riguardo, a confondere un pò le idee ci fu nel 1990 il gruppo dei KLF, che pubblicò un lavoro che viene oggi impropriamente definito un album di ambient house, chiamato proprio “Chill Out”: se con il fenomeno del chill-out condivideva gli spazi (essendo un collage di suoni della natura, spezzoni radiofonici e rumori della vita quotidiana intervallata da timidi beat, ossia condivideva l’esperienza che precede o segue il ballo come musica di “attesa”) non delineava però i contorni del genere. Oggi direi che viene vissuta una grande generalizzazione dei termini che spesso sono omniconprensivi, circostanza risaltata anche dagli artisti che mettono in musica anche vere e proprie miscele: quindi, prendendo le dovute distanze nello spiegamento delle parole atte a tradurre in pensieri le logiche provenienti dall’ascolto, il miglior modo per accostarsi a loro è pensare con la propria testa, giudicando le emozioni che possono provenire e tenendo un’occhio allo stato dell’arte.
Un esempio di “crossover” che filtra molto meglio rispetto alle generalità delle proposte house o downtempo, è quello della tedesca Jule Grasz, il cui ultimo lavoro “Earth feelings” mi ha incuriosito per via del fatto che veniva promosso da “Ambient Visions”, la famosa webzine di Michael Foster: mi colpiva anche il fatto che l’ispirazione del lavoro fosse stata presa a seguito di viaggi nei paesi nordici (la cui copertina in effetti evoca un certo approccio naturalistico). L’ascolto dei cinque lunghi brani rivela un ottima combinazione dei fattori dance ed ambient che fondono dub, house beat, downtempo con tessiture di elettronica riferita a tematiche che di solito troviamo nell’esperienza berlinese: il risultato è quindi un prodotto che può essere adatto sia per l’ascolto che sommessamente per il ballo. L’esperienza della Grasz, che sembra provenire dalla techno, rivela che  quando si hanno buone idee, semplici e di effetto, si possono fare operazioni che non rimangono solo nella cerchia degli estimatori. E l’apprezzamento è maggiore se si pensa a quanto sia difficile coniugare seriamente istanze meditative e movimento del corpo, in maniera non banale.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.