La Svizzera ha attraversato un periodo felicissimo nel jazz nel momento in cui lo stesso in Europa stava facendo vivere al free jazz una sorta di seconda opportunità stilistica: musicisti come la pianista Irene Schweizer, il duo celtico in patria svizzera (John Wolf Brennan e Christy Doran -anche nella sua espressione in gruppo con gli Om, dove figuravano personaggi di spicco come il sassofonista Urs Leimgruber e il batterista Fredy Studer), il percussionista Pierre Favre con il suo stile anticipatore, erano prepotentemente entrati nel gotha dei musicisti che contavano in virtù di caratterizzazioni personali che erano qualcosa in più di un semplice adeguamento al clima vigoroso e intellettuale del free dei sessanta in Europa. Inspiegabilmente queste figure hanno avuto poco eco nell’immediato, mentre la situazione migliorò nel decennio novanta (fine soprattutto), anni in cui la piccola nazione ha prodotto nuovamente artisti di valore, con alcuni di levatura internazionale e con nuove idee sulla musica (si pensi a Nik Bartsch, vedi mio post precedente), che si sono affiancati alla normale attività dei big svizzeri prima citati, che continuano ancora oggi la loro attività musicale imperterriti e soprattutto senza compromessi di nessun tipo; gli stessi, peraltro, stanno offrendo la loro esperienza ai giovani jazzisti svizzeri per costruire nuovi archetipi musicali, quando questo è possibile.
Le principali etichette discografiche di jazz del posto hanno praticamente monopolizzato le produzioni: la Intakt Records ha assecondato le istanze svizzere sia pure nell’àmbito di un processo di progetto discografico più ampio tendente ad un clima internazionale del jazz, con richiamo di musicisti anche oltre confini: l’etichetta di Zurigo è sicuramente la più esterofila della Svizzera, in questo incoraggiata da musicisti che fanno da ponte con gli Stati Uniti come la Sylvie Courvoisier, così come la HatHut Records, nata con scopi nobilissimi tendenti alla valorizzazione del patrimonio “d’arte” musicale, ha accolto molti talentuosi giovani al suo interno. Oggi la situazione è meno veicolata sui confini nazionali ed alcuni musicisti hanno anche fatto esperienze diverse servendosi di produttori e manager discografici in cerca di un maggior consenso tra gli appassionati del tipo di jazz proposto: si pensi agli artisti free che hanno avuto un braccio di raccordo considerevole in case discografiche come l’inglese Leo Records (Donat Fisch, Michel Wintsch, Denis Beuret), o a quelli riproponenti un certo tipo di jazz convenzionale che hanno visto le tedesche Ecm, Konnex o Act pronte per l’esposizione discografica. (si pensi al sassofonista Jurg Solothurnmann nella sua esperienza Konnex di “Shifting Moods” con gli In Transit, il Collin Vallon Trio o Thierry Lang, di cui vi ho parlato in posts precedenti)
Quindi la scena odierna sembra essere rivitalizzata; è una scena anche mediata, nel senso che guarda necessariamente alle occorrenze europee e statunitensi, ma possiede una freschezza di idee compositive che fa ben sperare per nuovi sviluppi. Alcune segnalazioni? Per ciò che riguarda gli sperimentatori mi sembra che vi siano due pianisti con idee eccellenti, Nicola Cipani e Michael Wintsch; il primo (che sembra insegni alla New York University) ha pubblicato un interessante cd nel 2009 “The Ill-Tempered Piano“, in cui una estremizzazione del modo di suonare il piano attraverso intense tecniche estese (che mirano al raggiungimento di una sorta di suono ricavato dalla meccanica primitiva del piano) può essere una nuova strada a tutti quegli esperimenti che da ormai più di sessanta anni sono stati fatti al riguardo, cercando, senza decostruire, degli approcci melodici inusuali; il secondo, versatile pianista, ha già una buona discografia alle spalle, avendo suonato con Fred Frith, Gerry Heminghway e nel Who Trio: “Metapiano” uscito per la Leo nel 2001, oltre ad utilizzare il piano preparato si serve di “toppe” create da effetti sintetizzati di tastiere, che cercano di ricreare nuovi livelli sensoriali di ascolto (anche in chiave ritmica). Wintsch è un intelligente artista che già ai suoi esordi nel 1994 con “Autour de Bartok” esponeva il suo jazz agli elementi della musica folk balcanica.
Nell’àmbito del free jazz meno ossequioso degli elementi di avanguardia, vi segnalo:
-il sassofonista, pittore Donat Fisch con il suo quartetto in “Lappland” per la Unit Records, che ha stile inserito tra Konitz e Webster e fraseggio free, ma non è una replica sic et simpliciter senza sostanza dei suoi predecessori.
–Samuel Blaser, trombettista, già autore di molte valide registrazioni, in “Boundless” (HatHut, 2011) centra l’obiettivo di dare al suo strumento una voce discorsiva, ben integrata in un quartetto che è memore di esperienze che si trovano al confine con il post-bop e il New York City’s jazz anni settanta.
-il contrabbassista Fabian Gisler (Backyard poets, HatHut 2007), a metà strada tra supporto ritmico e metodica contemporanea.
Funk, avanguardie “downtown”, rock, noise sono invece le impalcature principali presenti nei cds dei gruppi del sassofonista alto Lucien Dubuis (il Trio e soprattutto quello in aggiunta di Marc Ribot in “Ultime Cosmos” per la Enja 2009) e del trombettista davisiano Manuel Mengis Gruppe 6, tre ottimi albums per la HatHut*, in cui si rileva anche l’apporto di elementi catalizzatori come il chitarrista Flo Stoffner e i due sassofonisti Achim Escher al contralto e Christop Erb al tenore, nonchè del gruppo del batterista Samuel Rohrer (con il quartetto extrasvizzero, energico ed espressivo di Erdmann, Courtois e Mobus) in “How to catch a cloud”, Intakt 2012, che rivela una notevole versatilità ritmica ai cambiamenti di umore riflessi dai temi musicali.
Per gli amanti del jazz più convenzionale vi segnalo “A feeling for someone” il duo formato dal sassofonista Jurg Wickihalder (che ha anche un suo quartetto europeo) e dal pianista Chris Wiesendanger, per la Intakt 2008.
*Into The Barn, 2005 /The Pond, 2008 / Dulcet Crush,2010, tutti HatHut.