Recentemente è esploso il fenomeno delle netlabels, ossia quelle etichette indipendenti minori, che ospitano al loro interno musicisti e compositori con un profilo vario ma ben definito e che pubblicizzano la propria musica in maniera gratuita, senza ausili commerciali e tramite download diretto, cercando di creare un circuito amatoriale che può essere sollecitato tramite canali di social network o canali di comunicazione mirati: è da qualche mese che nella mia casella di posta elettronica ricevo inviti a recensire musicisti che hanno pubblicato qualcosa in tal senso ed in particolare quelli dell’organizzatore di una etichetta di Chicago, il sig. Keith Helt, della Panyrosasdiscos, che mi ha spinto ad approfondire l’argomento.
La premessa fondamentale è che il processo netlabels non si presenta sempre condivisibile in tutti gli aspetti: siamo in presenza di un fenomeno di polverizzazione o meglio di diluizione dei generi, poichè innanzitutto pur avendo la netlabel un orientamento verso determinati generi, poi nella sostanza la stessa lascia liberi i musicisti di suonare qualsiasi “melting pot” gli risulti come ispirazione; utilizzate soprattutto per i generi weirdo-rock o shiftgaze, in realtà oggi si è arrivati a costruire una vetrina sonora per chiunque abbia qualcosa da dire attraverso la musica coinvolgendo anche la musica colta. E’ purtroppo lo specchio dei tempi (forse e soprattutto quelli imminenti) che depongono per un’autoproduzione totale della musica che passerebbe da un riposizionamento dell’artista dove il consenso sui mezzi di comunicazione sociale attuali sarebbe più importante del fattore economico: se una tale teoria è di difficile comprensione in mancanza di un filtro operato da un conoscitore di musica che possa fare una discriminazione efficace del prodotto (salvo poi stabilire le qualità del conoscitore, specie se discografico), è altrettanto vero che permette a tanti musicisti/compositori semplicemente di evidenziarsi sui canali internet ed eventualmente promuovere direttamente la propria musica con licenze d’uso per l’ascolto che tagliano di netto i proventi dei mercati discografici (i musicisti si finanzierebbero indirettamente grazie alla popolarità su internet che gli permetterebbe un viatico (a pagamento) per concerti, manifestazioni ed affini).
E’ questo il principio a cui penso si informa anche il lavoro del sig. Keith Helt (così come quello di tanti altri suoi colleghi, vedi ad esempio questa pagina riepilogativa http://www.soundshiva.net/netlabels/rock) a cui quindi fornisco una risposta ufficiale presentando un paio di lavori che mi sembrano al di sopra della media: il primo è attribuito alla compositrice Sarah J Ritch, ma due dei cinque brani che lo compongono sono stati scritti da compositori a lei vicini (il marito violinista Aurelien Pederzoli e la compositrice Carmel Raz); trattasi di un gruppo di giovani frequentatori laureati dei college universitari di musica negli States, già con un’ottima visibilità, che con molta semplicità ed efficacia si muovono nei meandri della cosiddetta String Theory (questo il titolo del lavoro) moderna: sfruttando conoscenze già utilizzate nel passato grazie ad artisti che addirittura hanno tentato una sorta di immedesimazione “neurale” ricavata dalla risonanza delle corde (vedi tra tutte Ellen Fullman), con strumenti modificati e l’ausilio dell’elettronica costruiscono un prodotto validissimo, che si ascolta con benessere dei sensi e che ha nell’equilibrio tra profondità celata dei suoni, spettralità e rumori appositamente pensati per la composizione, il suo punto di forza. Quello di far emergere degli apparenti “segnali radio” da suoni pescati in profondità è uno dei maggiori tentativi sui quali le generazioni odierne di musicisti stanno lavorando.
L’altro lavoro da prendere in considerazione è il recentissimo 53″38 dei Sound Collision Alliance, 4 lunghi brani in cui sono le chitarre elettriche e quella gu-zheng (uno strumento tradizionale cinese sistemato a piano, che ha usato anche Fred Frith) a farla da padroni, con un sound molto aderente a certe filosofie post-rock con evidente vicinanza all’avanguardia “da ripetizione” del minimalismo americano, alla “sgangherata” microtonalità di Partch, ai passaggi silenziosi che riflettono concretismo e noise edulcorato. L’album che sembra evocare graficamente la scoperta del bosone di Higgs e che quindi ne potrebbe fornire una sua colonna sonora ideale, è suonato da Sam Krahn e Darren Bartolo (per la parte chitarra) a cui si unisce la stessa Sarah J Ritch al cello e al laptop.