Tra i musicisti orientali che si sono avvicinati alla musica leggera occidentale pochi possono vantarsi di aver trovato una formula di compenetrazione musicale che possa reggere allo scorrere dei tempi. Sicuramente non fa parte della categoria di coloro che non ci sono riusciti l’artista giapponese Ryuichi Sakamoto che, pur navigando in progetti diversi (in tal senso trascinato dal cosmopolitismo e dalle situazioni del mondo), ha da sempre fornito un suo spunto “riconoscibile”, qualcosa che ha spesso impreziosito la sua opera e quella di altri musicisti che circolavano nel suo giro e a cui indirizzava i suoi consigli come produttore.
Quando nel 1984 “Illustred Music Encyclopaedia” si impose nei circuiti musicali (sia in quelli dell’artista pop così come in quelli dance), Sakamoto aveva già esteriorizzato in maniera evidente il suono dei Japan di David Sylvian, soprattutto dandogli un tessuto ritmico-percussivo che si incrociava con l’elettronica leggera dei synth, in quel momento nel suo periodo d’oro. Quello che colpiva di lui era la capacità di saper donare alla composizione quell’umore orientale di fondo, con un’attenzione non banale sugli elementi della sua tradizione entrata oramai in contatto da tempo con le congiunzione occidentali, qualcosa che si adattava bene ad esprimere la nuova realtà sociale multietnica europea (che all’epoca già si nutriva di moltissimi scambi interculturali con musicisti che scambiavano le proprie residenze); qualcuno obiettò che si trattava di episodi comunque vicini alla dance music e alle discoteche, ma in quel periodo, una delle vie che i musicisti più intelligenti percorrevano (Ultravox, Japan, Talking Heads, Simple Minds e tanti altri), passava proprio da pezzi di musica aventi una configurazione utile anche per il ballo: senza nessuna volontà congetturale di far ballare, certamente Sakamoto può considerarsi un precursore della dance “orientalizzata”. D’altronde, i passi da fare erano semplici e si sostanziavano nel raccogliere tutti gli istinti della universalità degli uomini e del loro modo di “sentire” le minacce della società: in “Neo Geo” (1987), davanti ad un coro di voci che canta in modo tradizionale, si inseriva un synth infuso di sapore mittelleuropeo e un’implacabile sezione ritmica (tra il basso di Bill Laswell e drum machines): sebbene l’altrettanta personalità dei suoi comprimari in molti casi diventasse pericolosa perchè prevaricante sul suo stile, Sakamoto riuscì a creare un prodotto che aveva nella forza espressiva e nella creazione di “immagini” subliminali il suo punto di forza ed originalità; in “Parata” il giapponese addirittura si avvicina all’idioma del Zappa orchestrale, ma l’avvicinamento a tematiche che hanno a che fare con la composizione classica non è un caso. In base a quanto detto Ryuichi non doveva far altro che approfondire i concetti appena espressi: le soundtracks e l’afflato “classico”: il primo di questi due elementi gli ha donato la grande popolarità (grazie alla firma siglata su molti importanti films moderni, da “L’ultimo imperatore” di Bertolucci a “Wild Palms” di Stone, nell’arco di circa quindici anni, cercando di approfondire il rapporto tra fusione interculturale e cinema); il secondo lo rapporta direttamente ad una classicità vicinissima alle ubicazioni di Erik Satie trasferite nei tempi moderni: piano “solitario” con poche note, orchestrazione minimalistica e spunti orientali, “Discord” nel 1997 è la raccolta discografica che lo presenta in veste impenitente agli occhi del pubblico di matrice classica, che si impone come il lavoro di un compositore del Sol Levante alle prese con nuove combinazioni, tra cerimoniali giapponesi e le perdite di coscienza del sinfonismo di Shostakovich, un primo assaggio della visione cinematografica di Sakamato nell’elaborazione della composizione.
Innegabile è il fascino esercitato dalle ambientazioni musicali e dalle reiterazioni orchestrali che vanno dal minaccioso al lugubre, dal pastorale all’estatico. Il successivo “Back to the basics” (2000), primo disco in piano solo, esibisce anche una vena melodica “sospettosa”. Qui si fermerà l’ambizione del compositore classico puro, poichè dopo queste fruttuose esperienze, intorno al 2003 Sakamoto affianca l’esperienza continuativa delle colonne sonore con due volute collaborazioni: una con Carsten Nicolai in arte Alva Noto (uno dei sound artists più famosi nel mondo) e l’altra con Christian Fennesz (musicista austriaco vicinissimo alla glitch music), entrambe finalizzate a cogliere ancora quel senso di compenetrazione delle vicissitudini interiori degli umani, attraverso i nuovi mezzi che l’elettronica e il computer in particolare, gli mettono a disposizione. Ne viene fuori una proposta avvolgente, densa di musicalità sebbene non pienamente riconducibile all’impianto stilistico che Sakamoto aveva messo in mostra nel periodo dei synths. Con Fennesz, il piano del giapponese si fa ancora più centellinato e si inserisce nella coltre di tiepidi rumori e sonagli utili per scorrere le immagini tipicamente atmosferiche (ambient) ricostruite dal chitarrista austriaco, che si immola in questo esercizio di produzione lasciando da parte il suo strumento.
“AUN – The Beginnings and the end of all things“, soundtracks dell’omonimo film del regista Edgar Honetschlager, è la conferma della proposta iniziata con “Cendre” e “Flumina” ed è il coronamento di questa ulteriore fase destinata a descrivere quell’imminente senso di “catastrofismo” in bilico dettato dagli eventi, una sorta di “fiction” musicale, così come descritto da Honetschlager nelle note del suo film.