Tra i miei “amici” lettori ho avuto la fortuna di avere da molto tempo il compositore romano Simone Santi Gubini. Simone (1980), oltre ad essere un favoloso compositore contemporaneo, è anche uno studioso ed esegeta della musica, con approfondimenti che vanno dalla musica sacra (di cui ha approfondito la melurgia bizantina, nonchè le tecniche del contrappunto cinquecentesco) alla musica moderna e contemporanea (con diversi saggi rinvenibili nel suo sito ufficiale http://www.simonesantigubini.com/ e soprattutto con la creazione di una sua teoria musicale, la “composizione a parti uguali”); pur non essendoci ancora registrazioni ufficiali della sua musica, esiste già un parco composizioni cospicuo che lo vede sostanzialmente diviso tra pianoforte in solo (“Ausgiessung” è realmente innovativo, costruito sul dislivello nei tempi di esecuzione, che condivide passaggi “ruminativi”, clusters e silenzio, come in una sorta di episodi “fotografici” a mò di consultazione), pezzi per elettronica e concretismo (Giorgio Nottoli è stato un suo insegnante), e composizioni orchestrali (“Als Oben” ha già avuto parecchi riconoscimenti). Attualmente sta lavorando ad un grosso progetto multimediale chiamato “SOS“, in favore delle popolazioni giapponesi colpite dai recenti e noti eventi atmosferici. E’ con immenso piacere che, dietro mia richiesta, ha acconsentito alla pubblicazione di questo saggio critico basato su un’argomento sollevato in un libro di Pietro Volante, in cui si dibatte dello straordinario tentativo di portare alla massa, il linguaggio “musicale” della musica classica del novecento, quella che iniziò a partorire la contemporaneità. E’ un tema affascinante che si inquadra nel più ampio dibattito sulla mancanza di condivisione del linguaggio musicale odierno, che spero di poter approndire nel futuro con altre disquisizioni di spessore.
E.G.
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Non si vuole fare dell’ideologia, tanto più della sociologia su dei fatti mirabilmente spiegati -fra gli altri- da P.Violante, ma riflettere su di un trentennio, precisamente che va dal 1905 al 1934, che ha ampiamente abbattuto invere problematiche di qualità e percettività musicale liquidate spesso per i soli addetti ai lavori.
Stiamo parlando della complessa e monumentale stagione della “Bildung” (cultura e istruzione operaia) specialmente dei “Concerti sinfonici dei lavoratori viennesi”, vale a dire dello straordinario tentativo da parte della socialdemocrazia austriaca di fare del proletariato l’erede attivo della modernità musicale, avendo G.Mahler come perno e A.von Webern come suo interprete. R.Strauss, una volta ebbe a dire che dirigendo il primo tempo della terza sinfonia di Mahler: «…finii con l’immaginare interminabili schiere di lavoratori, in marcia verso il Prater per celebrarvi il Primo Maggio». Di qui, lavoratori, operai, musicalmente impreparati, ma pronti ad accogliere l’inesplorata Grande Vienna fino allora inaccessibile; un riappropriarsi della tradizione classica, con forza etica e morale, necessaria a resistere la volgarità e alla banale popolarità, tenuta sino allora dalla borghesia. Un’opera sociale voluta da D.J.Bach, ebreo viennese ed erede della “linea” wagneriana, musicista, amico e sostenitore di A.Schönberg, estimatore di A.Webern, e responsabile culturale del partito socialdemocratico. La sua reificazione -come attesta W.T.Adorno- indica la necessità di nuovi temi che chiedono nuove forme, similmente a quanto D.Bach afferma: la musica ha una sua forma che muta sotto l’urgenza di un nuovo contenuto, nondimeno trascurando che l’impero austriaco fu diviso in diversi stati indipendenti dopo la sconfitta delle Potenze centrali nella prima guerra mondiale, e che questo portò inevitabilmente alla rovina delle classi più povere. Classi che poterono finalmente vivere un’identità nazionale attraverso la musica; un popolo, che ha indipendentemente abbracciato una profonda aspirazione verso l’arte del tutto spontaneamente, avendone avuto la possibilità. Un’aspirazione ed un’opportunità che, satura di rappresentazioni, nutriva un modesto interesse per un Mozart, C.P.E.Bach, per R.Shumann o per un Puccini, mentre “oggi”, nonostante ciò, si vedono spesso in ogni programma di concerto o quasi. Contrariamente, questi lavoratori, nutrivano un possente entusiasmo per le prime assolute di Schönberg, A.Berg, Webern, E.Krenek, A.Zemlinsky, H.E.Pfitzner, F.J.Hauer, B.Bartók, H.Eisler, A.Casella, F.Busoni, per Mahler, R.Strauss come per M.Reger, H.Wolf, K.Szymanowski, o per le opere di R.Wagner, A.Bruckner, J.Brahms, per J.S.Bach, F.J.Haydn, L.van Beethoven, e Palestrina. Rendiamoci conto, alcuni di questi straordinari compositori non hanno ancora trovato il posto che meritano nella storia, nonostante l’abbiano fatta, cambiata, costruita sempre in disparte.
Beninteso, non si vogliono dare risposte, ma formulare domande, quindi si ipotizzeranno delle cause che hanno dato vita alla demonizzazione della produzione musicale dei primi anni venti del ‘900 come ad esempio il bisogno di novità nel secondo dopoguerra, il cambiamento dei soggetti sociali, i regimi di mercato, l’industria culturale, e quant’altro. Tutte innominabili, innumerabili inclinazioni dell’uomo moderno. Senz’altro, le tirannie, qualsiasi tirannia, non costituiscono una novità e soprattutto alcuna rinascita.
Si crede che la musica di allora come quella del nostro tempo siano pressoché elitarie e si è voluto tirannicamente censurarle, mentre questa fetta di storia che stiamo riportando, ne attesta una realtà del tutto contraria a quanto culturalmente si crede. In altre parole, abbiamo visto che questi lavoratori andavano, partecipavano a queste musiche, mentre l’elite le snobbava. Perciò, dov’è l’elitarismo di questa musica e l’incomprensibilità che si suole attribuirle se addirittura il proletariato la capiva? L’elite è chi non vuol viverla, non chi la fa. La speranza è che una nuova cultura possa nascere dall’essenza di una comunità e dalla forza del singolo che agisce all’interno di essa, indipendentemente da chi ostinatamente ne ristagna il contrario.
Simone SANTI GUBINI