Il problema di attribuire la giusta valorizzazione degli aspetti storici ed estetici nella musica è materia che è stata affrontata da grandi personalità della filosofia e dell’arte musicale; negli ultimi vent’anni un cospicuo volume di scritti è stato pubblicato da personaggi della modernità musicale in cui si è anche cercato di fare un bilancio delle attività musicali in rapporto ai tempi e alle novità da questi apportate. Sull’asse degli scritti Schoenberg-Boulez-spettralisti si inserisce il libro “Musica, potere, scrittura” scritto dal compositore francese Hugues Dufourt che riunisce in maniera organica tutta una serie di saggi pubblicati in parecchie riviste specializzate quasi totalmente di origine francese: il libro tradotto in italiano è stato pubblicato nella collezione delle Sfere della Ricordi Lim, casa editrice che da sempre ha nutrito attenzione per prodotti specifici rientranti nel campo della sociologia e della storia della musica, facendo anche riferimento spesso a settori confinanti come la musicologia o la filosofia musicale. Lo spunto, venuto dal mio contatto con il compositore, di recensire il testo ha come finalità solo quella di presentare le idee di un uomo importante della musica contemporanea, che dimostra la sua grande preparazione pluridisciplinare e l’inevitabile affiancamento ai grandi “pensatori” della musica. “Musica, potere, scrittura” è un resoconto dettagliato di tutte le filiazioni della musica che viene strutturato in tre grandi capitoli, in cui passare dalla storia alla dialettica degli strumenti, dall’analisi contemporanea degli elementi fondamentali della musica come viatico per poter dare apprezzamento all’odierno e a quello che si pensa del futuro. Ma quello che colpisce è la completezza del pensiero (che affronta tutte le problematiche), il linguaggio intellettuale ma profondo (che spesso ha bisogno di seconde e terze letture) ed una certa condivisione dei temi.
Prendendo quasi costantemente in considerazione i due più grandi filosofi della musica (Nietzsche e Adorno), Dufourt ne costituisce un commento itinerante dove i loro concetti vengono accettati, rifiutati o migliorati. Quanto a Nietzsche, Dufourt riprende vari concetti che vanno dalla teoria dell’essenza della musica a quella della sua condizione tragica di rappresentare le chiavi di lettura dell’universo: la musica avrebbe i codici segreti necessari per entrare nella comprensione del mondo e la capacità (attraverso i riflessi emotivi) di “...svelarci quest’onnipotenza incomprensibile e inconoscibile del mondo sulla quale si erge tutto quello che apprendiamo e che siamo in grado di apprendere...”; critico nei confronti della polifonia istituisce una diversa prospettiva in linea con le proprie caratteristiche….”....la polifonia….ha tradotto il carattere operoso di una civiltà che ha fatto fiorire città, mestieri e invenzioni; nella musica polifonica dominava uno spirito antifisico e noioso che non era senza affinità con quello che, contemporaneamente, ispirava l’apertura di cantieri e la preparazioni di ingranaggi. Per Dufourt la musica fu inerte almeno fino al barocco, non sufficientemente diversificata, che recuperò dinamismo nel classicismo anche inoltrato. Sicuramente condivisibili sono le affermazioni che tendono a smantellare tutta la storia del melodramma e dell’opera con esclusione di Wagner che per Dufourt sono “usurpazioni” della vera arte…” L’umanesimo di fine Rinascimento ha avvilito la musica ponendola al servizio della rozza retorica delle passioni e in funzione del testo del recitativo o nell’andamento alterno proprio dello stilo rappresentativo…”
Inoltre è trattato meravigliosamente il tema del cosiddetto nichilismo intervenuto tra le due guerre mondiali del novecento, tema che oggi purtroppo sembra riproporsi nella nostra società: partendo dalle carenze culturali della borghesia tedesca allineatasi al livello delle masse proletarie, Dufourt dimostra come l’arrivismo abbia contribuito ad alimentare i nazionalismi e la voglia dell’ordine sotto forma violenta, “ …dalla fine del XIX secolo la storia della musica occidentale ha coinciso con l’avanzata del nichilismo, del quale è una variante.
Particolare enfasi viene data in chiave filosofica anche ai nuovi generi musicali sviluppatisi nel novecento: Dufourt fa una disamina lucida delle teorie, degli scopi e delle prospettive del linguaggio di Schoenberg a cui attribuisce una valenza insostituibile, mentre è naturalmente critico nei confronti dei linguaggi popolari e soprattutto di quelli revivalistici. Quanto a Schoenberg (a cui dedica una parte intera) lo sistema lontano dal movimento neo-classico e dalla sua inerzia creativa, cercando di attribuirgli il merito di aver tratto profitto dall’oggettivazione del linguaggio tradizionale, ma in maniera coerente rompendo con il sistema tonale.
In merito al jazz, Dufourt (così come Adorno) ricalca la strategia dei media americani che hanno fatto di tutto per dare un abito borghese al genere, prendendone solo gli aspetti che gli interessavano e lancia un’aggiornamento anche sul free a cui Adorno non aveva risposte “… La musica nera autentica che canta il sesso, la miseria, la derisione, la protesta, l’impegno politico è stata impietosamente braccata e respinta dalla società americana, che ne ha lasciato soppravvivere solo le forme atrofizzate: accettazione passiva, redenzione mistica, rassegnazione. Il jazz è stato in gran parte ridotto a un prodotto inoffensivo, sdolcinato, estetizzante. Il free jazz, che si è rifiutato di piegarsi alla logica liberistica e predeterminata, è stato allora inesorabilmente rifiutato e condannato al silenzio…”
Per quanto riguarda invece i neoclassicisti, il libro contiene in molte sue parti, riferimenti e commenti quasi dadaisti a questo periodo di transizione, che egli vede come un vero e proprio regresso della musica e della cultura in generale. Troverete formule sarcastiche che accompagnano l’arte di Stravinsky …”per lui scrivere vuol dire trascrivere, proiettare le forme tradizionali in uno spazio neutro, dove vengono triturate, sezionate, spezzettate e trasformate in un disegno geometrico di tracce. Riorganizzando il passato, egli apre la strada al più puro costruttivismo…”, di Satie “...negli anni ’20 la caustica nonchalance di Satie diffonde una “gaietè retrouveè” che rifiuta il peso e la seriosità dell’espressività, preferendole le birichinate di una smorfiosa ascesi e la disinvolta deirisione di una frivolezza incanaglita…” o dei principali autori della belle epoque francese “…. Martin, Jolivet, Hindemith, Poulenc e Orff non hanno che da scegliere tra l’afflato sacerdotale e la cariatide motorista…..”; ma la critica è anche costruttiva perchè sempre a proposito degli stessi autori Dufourt ne segnala in alcuni punti indirettamente anche i caratteri positivi (per esempio nell’àmbito delle considerazioni svolte a proposito delle scoperte sui tempi fatte da Debussy e Stravinsky).
Anche a Boulez viene dedicato un’intero capitolo: quel saggio sull’autore francese tende ad evidenziare le ragioni della continuità storica dei problemi che Schoenberg inevitabilmente ebbe con le sue teorie, cercando allo stesso tempo di fornire (in maniera estesa) una giustificazione del serialismo (anche integrale) come tecnica ed estetica musicale. Dufourt individua nella formalizzazione di un sistema la vera forza dei serialisti: il calcolo e le correlazioni seriali non devono essere viste come uno sfoggio di intelligenza fine a sè stesso, ma un modo di raggiungere una nuova estetica della musica. Inoltre le trasformazioni intervenute nella società dopo il 1945 impongono di rivedere tutto il sistema dei simboli utilizzati dal compositore come specchio della realtà: ” …si è diffusa la consapevolezza che nel consorzio umano si è interposta tra il soggetto e se stesso, tra il soggetto e gli altri uomini un’entità astratta: quella costituita dal mondo dell’informazione e della comunicazione…”; tutte le arti astratte moderne e quindi anche il serialismo si basano sulla funzione di connessione ad un linguaggio fatto di simboli.
Molto riconosciuta è la figura di Edgar Vàrese che viena tirata in ballo nelle considerazioni relative all’approccio dei futuristi: distante dal movimento che per lui non costruisce il futuro, vede nella ricerca di Vàrese una via possibile per un suo sviluppo, quella del confronto con la scienza….”..Clacson, sirene, onde Martenot, la radioelettricità produce suoni che non devono nulla alla tradizione culturale della musica europea….”, mentre un giudizio più contenuto viene dato ai seguaci del silenzio e dell’indeterminatezza, che se da una parte non trovano elementi teorici di appiglio nell’estetica “…restituito alla singolarità acustica o fisica, il suono rimanda ad una fase arcaica e preistorica della sensibilità. L’arte si riduce all’immediato e la degustazione estatica e istantanea del suono si presenta come un godimento liberatorio…”, dall’altra confermano il compito di ricostruzione dell’unità culturale dell’Europa, comune a tutte le avanguardie, che si è presa la responsabilità di curare i maldestri eccessi nazionalistici e le tendenze alla conservazione protezionistica delle economie.
Splendida la trattazione della terza parte riguardante la “logica del materiale”: qui Dufourt sviscera tutto il suo sapere su un campo in cui è un’onnipotenza: viene messa in evidenza l’importanza del timbro come fattore della modernità musicale sia in relazione alle altezze e allo spazio, sia strictu sensu nell’àmbito della disciplina spettrale. Dufourt dimostra in maniera chiara come il timbro sia diventato un parametro che da entità definita è diventato entità in evoluzione: il saggio entra in collisione non solo con elucubrazioni di natura storica, ma riflette, scoperte alla mano, il ruolo del timbro nella rivoluzione provocata dall’elettronica e dai computers; ormai l’acustica classica (strumento delle altezze) è distante da quella contemporanea (dedita ai timbri). Nel campo dei rapporti del timbro con lo spazio, Dufourt evidenzia come la “modellizzazione” informatica ha permesso la riproduzione artificiale dei suoni da impartire ai musicisti e facendo una serie di numerosi esempi tra i compositori dimostra come ampio è diventato il campo della psicoacustica e come ambiguo possa essere considerato il lavoro del compositore in termini di pura arte, specie quando si pensa al tempo impiegato per ottenere nuovi suoni digitali: allora il lavoro si sposta sulla densità delle strutture musicali e meno sulla tessitura; ritorna in vigore la ricerca del “colore” e della “profondità” dello spazio sonoro. Dufourt prende le distanze dal movimento seriale introducendo una molteplicità di differenze che in fondo mostrano un compositore con una diversa sensibilità d’approccio, così come confermato dalla enucleazione di tutti gli esperimenti fatti nella conclusione del testo.
“Musica, potere, scrittura” diventa, quindi, testo di riferimento per gli esperti e studiosi della materia, ma fornisce un’ottima base didattica anche per coloro che vogliono sviluppare una visione a 360° della musica in generale.