La gran parte dei terapisti dell’ipnosi ritiene che la stessa sia nella maggior parte dei casi benefica per chi lo mette in pratica: in particolare, vi è uno stato all’ipnosi che viene chiamato ipnagogico e che si verifica in quel momento di tempo che sta l’inizio del sonno e il sonno stesso; sono stati mentali in cui (per i brevissimi periodi di tempo che lo contraddistinguono) sembra che la nostra mente entri in una situazione di creatività determinata da immagini mentali più o meno astratte che fanno leva sulle capacità illimitate del nostro subconscio. Il fatto di aver raccolto tante informazioni in materia ne ha provocato sviluppi in molti rami non attinenti solo alla medicina, tra cui la musica, che ha tentato di riflettere sulla possibilità di poter descrivere queste immagini da un punto di vista strettamente sonoro. Essendo questo campo molto vicino alla meditazione, l’ambient music è stato il genere eletto per rappresentare questi stati appartenenti a funzioni vitali del corpo umano. Robert Rich è stato uno dei primi ad occuparsi degli stadi inerenti al sonno creando delle suites “in tempo reale” in cui si potessero dimostrare i poteri della musica su questa nostra funzione, ma la fase “ipnagogica” è stata appannaggio di tanti musicisti anche appartenenti a varie branchie della musica: l’ultimo lavoro del californiano Loren Nerell si pone proprio in questo filone di approfondimento della teoria in questione. Percussionista innamorato del Bali, nel passato Nerell ha trasferito in musica le sue esperienze di vita fatte in quel luogo costruendo delle lunghe suites “concrete” basate sul suono di quei tipici strumenti orientali, facendo emergere una parte oscura di quel paesaggio sonoro da lui sperimentato stando agli angoli delle strade: il gamelan si sposava con i cerimoniali di Java mutuati dai campi di registrazione. Loren oltre ad essere un etno-musicologo è anche un antropologo scientifico della musica ed è da quest’ultima base che prende origine il suo primo album per la Projekt R.: gli episodi “ambient” di Nerell erano confinati (in una discografia realmente sottodimensionata) al suo “Lilin Dewa” del ’96 e alle collaborazioni con Barry Craig (“Intangible” con A Produce) e Steve Roach in “Terraform”, poichè il resto era costruito con le tecniche di field recordings. “Slow Dream” può considerarsi quindi come una sorta di spartiacque dove la volontà è quella di sperimentare un prolungato stato ipnagogico; se dal punto delle sensazioni questi sono lavori che sembrano allontanarsi da un ascolto normale (poichè più pertinenti ad una seduta dallo psicologo), dal punto di vista artistico se ne apprezzano i caratteri paradossali, poichè è in dubbio che ascoltare un’ora di questa musica che vive di oscure “sospensioni” per tutta la sua durata è lavoro difficile da affrontare (con pazienza si potrebbero cogliere le sottili ed implicite variazioni che sottintendono questi droni evanascenti di suoni). Il vero problema per il critico musicale è che valore emotivo assegnare a questi suoni; entra in gioco un processo di valutazione teso ad attribuire un significato a questi stadi musicali: e se questi lunghi brani ne deformano la realtà (poichè forse si entra nel mondo della meditazione e quindi nel conscio) l’unico processo definibile è quello basato sugli accorgimenti usati in fase di realizzazione dei brani corrispondenti. Trovo che nel caso di Nerell esperimenti come “A sense of presence”, scritta per un’installazione a Los Angeles nel 2009, abbiano maggiori possibilità di poter trovare un appiglio di carattere estetico, dove i sottostanti effetti di ricostruzione elettronica (sospensione dronica, venti cosmici trasportatori, indefiniti suoni metallici) cercano di raggiungere quel risultato sperato, ossia di accompagnare in maniera adeguata la nostra dormiveglia.