Sistemazioni sull’opera “Le Grand Macabre” di Ligeti

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L'escenografia de La Fura dels Baus per "Le Gran Macabre", en la producció del Gran Teatre del Liceu el 2009. Source Own work Author Brustige-file, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license.
Gyorgy Ligeti: “Io cerco una musica che non sia rimasticatura del passato, neppure del passato dell’avanguardia”. E questo s’intende ascoltando Le Grand Macabre (1975-’77 – rev. 1996) -libretto di G. Ligeti e Michael Mescheke, liberamente tratto da “La balade du Grand Macabre” di Michel de Ghelderode-. L’opera è costituita da due atti di due scene ciascuno. Le quattro scene che compongono l’opera sono come sezioni formali di un grande lavoro sinfonico, comprendente una esposizione, uno scherzo, un grande finale e una ripresa variata dell’esposizione costituita dal tema distorto del finale della sinfonia Eroica di Beethoven nei gravi, da un ragtime e da un cha-cha negli acuti, e da una fanfara di ottoni nei toni medi, mentre l’orchestra d’archi suona una progressione di accordi che culminano in un canone. Legni, percussioni, pianoforte e celesta si uniscono in una passacaglia finale (quasi una parodia di quella parodia dell’opera ch’è il finale fugato del verdiano Falstaff). Zoltàn Peskò (maestro concertatore e direttore) dimostra con incisiva chiarezza ed espressività celibidachiana quanto sia indispensabile comprendere queste combinatorie per esaurire tutto ciò che la partitura è in grado di offrire…..(omissis)…….nel punto culminante dell’opera, il popolo infuriato, ma manipolabilissimo, entra nella corte del principe Go-Go ripetendo 64 volte le parole “al sovrano”: qui Ligeti, usando lo stile dei giovani compositori americani, va ben oltre il semplice omaggio alla loro ingenuità compositiva. Accanto a molte indicazioni di tempo tipiche di Gustav Mahler, prima della passacaglia finale c’è un grande levare che cita le prime note del corale Es ist genung usato da Berg nel suo concerto per violino, con una espressione che però potrebbe far parte dei Kindertotenlieder, anche se con armonie diverse, “ligetiane” e con i crescendi tipici delle sue fasce sonore (micropolifonia). La complessa polifonia di ciascuna parte è incorporata in un flusso armonico-musicale nel quale le armonie non cambiano improvvisamente, ma si fondono l’una nell’altra; una combinazione distinguibile di intervalli sfuma gradualmente, e da questa nebulosità si scopre che una nuova combinazione di intervalli prende forma mentre la situazione teatrale mette contemporaneamente in luce il materiale e lo stile compositivo usato. Sembra di assistere ad un lineare passaggio di ruoli laddove tutti, con armi e mestieri, confluiscono nelle mani dell’autore, tessendo una linea di continuità che và da Monteverdi a Ligeti stesso. Prominente è il senso drammaturgico dell’azione teatrale rassomigliante Verdi -che un loggionista con tutte le forze piangeva- totalmente immerso nella nostra epoca, intento a delineare i ruoli di un nuovo Simon Boccanegra, d’un Matteo Borsa o di un Manrico dando al pubblico l’impressione di trovarsi in un paese sull’orlo di un’apocalisse del tutto umana, efficacemente messa in scena da La Fura dels Baus con una gamma di espedienti scenici che includono movimento, utilizzo di materiali naturali e industriali, e l’applicazione di nuove tecnologie. Il tutto è dominato da una creazione collettiva, in cui l’attore e l’autore sono un’unica entità, con trovate che fanno pensare al teatro delle crudeltà (Antonin Artaud) come al Grand Guignol (André de Lorde), sempre con spigliata originalità e continuità con questi. Si ha l’impressione che dopo il racconto e prima dell’epilogo Ligeti pensi a loro, i quali hanno vissuto constantemente con il pensiero della morte, sapendo che quel giorno non si esorcizza con citazioni erronee dall’Apocalisse di San Giovanni, nè con la più brillante operazione compositiva, nè con la più piacevole serata teatrale com’è stata.
Simone Santi Gubini da Il concerto nell’uovo, Ligeti – “Le Grand Macabre”, Teatro dell’Opera di Roma – Domenica 21 Giugno 2009.
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Catturare una perfomance teatrale in un cd è sempre stata storia controversa. In questi casi entrano in gioco diversi fattori nell’analisi critica che possono sconvolgere le opinioni e le aspettative. Tutta la storia dell’opera da Wagner in poi ha dovuto affrontare le differenziazioni che subisce un evento musicale dal vivo rispetto alla sua registrazione e se l’idea di musica totale di Wagner (ossia di un prodotto composito che al suo interno ospita musica, sceneggiatura, trame letterarie, etc.) all’epoca in cui visse fu una delle prime realizzazioni del suo scrivere artistico, oggi lo sviluppo nella contemporaneità ha permesso nuovi orizzonti che rendono fruibile l’evento attraverso la sua ripresa totale e non solo musicale. Se la nobile idea di rappresentare l’arte in plurime manifestazioni sensorie è certamente un fatto positivo, resta comunque il fatto che lo stesso, composito, prodotto di insieme, è una somma delle parti e come in una squadra di football qualche giocatore più debole viene salvato dal collettivo, così nell’opera non si pone il problema delle valutazioni delle parti poichè è l’aspetto complessivo che viene privilegiato. In questo modo nel tempo si è creata una critica musicale interdisciplinare (con altre arti, tra cui quelle visive) che potesse avere una valenza diversa dal solito concentrarsi sul fattore musicale. Le parole appassionate di Simone sull’opera di Ligeti riflettono benissimo questo tipo di valutazione tecnica a cui oggi si devono aggiungere i progressi intrapresi nella tecnologia e nella fruizione del prodotto musicale: penso che non tarderà molto la circostanza di poter gustare un’opera (inteso in senso ampio) da casa in modalità multimediale. E’ quindi solo rimanendo nella prospettiva esclusivamente musicale che si può azzardare una valutazione critica dell’opera del grande compositore ungherese e purtroppo l’idea è che nel “Grand Macabre” sia stata persa l’occasione  di sviluppare in forma estesa i tratti caratteristici della sua arte; forse il fatto di aver rivisto la prima formulazione dopo qualche anno e di non aver cercato altre repliche potrebbero essere argomenti che propendono verso l’idea che lo stesso avesse già in cantiere nuovi concetti da dedicare ad una materia che aveva naturalmente tralasciato; ma nonostante “Le Grand Macabre” sia ampiamente considerato come una delle migliori opere teatrali post-Kagel, in possesso di una splendida idea dal punto di vista della trama e della rappresentazione, probabilmente risulta essere una delle manifestazioni musicali più deboli di Ligeti (in una scala di capolavori), un tentativo non completo di diffondere un nuovo concetto di modernità immerso nella micropolifonia o in particolari ricerche timbriche, oltre quello che il teatro musicale aveva già raggiunto in quegli anni (1977).
Ettore Garzia
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Simone Santi Gubini è particolarmente interessato ad un musica come esperienza fisica intensa, ad una musica come richiesta da soddisfare. Utilizzando sviluppi altamente testuali, ambiguità estrema e toni sovraesposti, il compositore crea un massimo contrasto in ogni parametro musicale ed un'esplosione di relazioni in continuo mutamento per plasmarne di nuove, costringendo la percezione consolidata a rompersi definitivamente. La brutalità del volume e l'implacabile intensità musicale richiedono una grande forza fisica dell'esecutore, uno stato di controllo assoluto e perdita dello stesso. Il corpo degli strumenti media l'enorme rilascio di suono sul pubblico, un'improvvisa accelerazione dell'impatto sonoro nota come shock. Shock come esperienza musicale definitiva.