Oggi molta parte della critica internazionale espone il suo massimo giudizio su pianisti jazz che abbiano capacità tecniche eccellenti ma magari idee sfruttate, mettendo in secondo piano quelli che tali capacità non le evidenziano volutamente per dare vita ad una formula musicale dove l’idea in sè per sè è pregnante ma non si offre in maniera immediata e spontanea, poichè ha bisogno di essere apprezzata e trovata nell’ascolto. Giovanni Di Domenico, pianista di chiara origine italiana ma residente in Belgio, rientra nella considerazione appena fatta: quella di Di Domenico è l’attività di un compositore in cui sono ben impresse le radici della musica che non si fermano solo al jazz; su queste pagine Giovanni era già stato menzionato nel progetto portato avanti insieme alla sassofonista francese Alexandra Grimal*, ma limitare la conoscenza dell’artista alle due registrazioni fatte con lei significherebbe avere una visione parziale del pianista. Di Domenico spazia in un range di generi piuttosto ampio, range che viene naturalmente esplorato con musicisti diversi e consoni al tipo di esperienza musicale effettuata. Dall’analisi complessiva del suo operato ne viene fuori un musicista particolare, che pur avendo un fondamento comune nella sua musica costituito dalla ricerca di moderne “atmosfere” espressive, a seconda del progetto utilizzato cambia prospettiva: se con la Grimal il punto di appoggio è sicuramente un certo tipo di jazz, delicato e molto moderatamente “free”, la collaborazione con Arve Henriksen e il percussionista Tatsuhita Yamamoto è un originale tentativo di incrociare i territori intrisi di un sottile charme classicista con le sonorità ambientali; mentre il suo quintetto da camera del Mou(ve)ment Ensemble è la manifestazione più pura dell’interesse dell’artista nel favorire incursioni nei territori neoclassicisti o postmoderni della musica. Il fascino delle sue composizioni sta nell’espediente di saper riorganizzare gli elementi in suo possesso facendo collassare la stessa ipotesi musicale in favore di note (spesso anche poche) che trovano il loro posto ideale nello svolgimento della composizione come se si avesse la possibilità di elaborare con la mente in tempo reale l’input delle note giuste da sistemare in un dato spazio musicale. Inoltre Giovanni possiede gusto anche per le soluzioni ai sintetizzatori (attuate con i progetti Going, Hintanoi e Mulabanda anche tramite una propria etichetta, la Silent Water), spesso ricostruendo ritagli di suoni che sono appesi nella memoria storica della musica e che sembrano all’improvviso essere utili per lo svolgimento dei brani; in questa esperienza dove lo stesso si rivolge ad un organo integrato al synth, la manipolazione dei suoni consente meno di ricavare i tratti stilistici della sua espressione, dovendo condividere il carattere tenue e raffinato che lo contraddistingue con una maggiore irruenza dei suoi collaboratori. Spenderò due parole, quindi, per la sua attuale discografia, partendo dalla suddivisione di massima che vi ho proposto.
Giovanni Di Domenico – Alexandra Grimal, Ghibli / Sans Bruit, 2011
E’ certamente la versione più vicina ad un concetto di jazz inteso in senso tradizionale: “Ghibli” denota l’influenza di Monk (“Coldfinger” è preziosa come un quadretto impressionista) e del Brubeck più discorsivo in ambiente cool che quindi si riaggancia a quel primo incontro tra modernismo pianistico dei primi anni del novecento e il jazz di Konitz, Giuffrè ed affini. Lontano dall’essere un’operazione ricontestualizzata nell’odierno, “Ghibli” (che è un vento estivo proveniente dall’Africa desertica, che personalmente conosco molto bene a causa della vicinanza geografica) è uno scrigno di sensazioni ed immagini, dove oltre al consueto eccellente timbro della Grimal, si scorge un pianista attentissimo nell’evitare ricadute troppo evidenti in situazioni pianistiche già esplorate, proponendosi come collante dell’improvvisazione in possesso anche di alcune movenze contemporanee.
Giovanni Di Domenico & Oriol Roca, Sounds good, Spocus R., 2012
Questa collaborazione con il batterista Oriol Roca sposta il suo baricentro su quelle movenze contemporanee che erano appena accennate in “Ghibli” e “Seminare Vento”. “Soundabout” vi introduce ad un clima quasi Ligetiano, per poi comunque rientrare in una “pensosità” espressiva coadiuvata da effetti percussivi che rendono il linguaggio sospensivo; in “Sounds good” trovate tutto il polistilismo di Giovanni: gli spazi atonali, la ricerca di un giusto equilibrio tra silenzio e note, le percussioni che si muovono sommessamente sullo sfondo, e, in quantità minori l’amebluement trasversale di Satie e le angolature di Monk; in “Avoid the void” si avvertono persino brevi scampoli di minimalismo; ma la cosa che colpisce è il validissimo tocco pianistico che segue canoni di raffinatezza che appartengono al mondo degli esecutori classici.
Di Domenico’s Mo(ve)ment Ensemble, Terra che cammina, Spocus R., 2010
E’ risaputo che la maggior parte dei musicisti jazz prova la strada del chamber jazz a carriera inoltrata; Di Domenico in questo si dimostra musicista coraggioso e preparato, poichè da subito ha imbastito nell’àmbito dei suoi progetti anche uno che fosse molto proiettato nella musica classica. “Terra che cammina“, inciso con un quintetto in cui partecipano John Ruocco al clarinetto, e un trio d’archi (Antana Roosens, violino/Anja Naucler, violoncello/ Claus Kaarsgard, contrabb.), vive della capacità di intraprendere preziose canalizzazioni di suono multiplo che hanno tutte le caratteristiche dello stile di Di Domenico: qui Giovanni dimostra le sue qualità di compositore: un suono dinamicamente progressivo, assoli “sospensivi” in abito decadente-modernista (i sette minuti di “Amusia” sono di assoluto valore, ma anche il cluster minimale e centrale di “MM” si inserisce in una struttura piena di pathos narrativo) e il jazz che diventa un elemento della formula senza nessun predominio.
Giovanni Di Domenico, Arve Henriksen, Tatsuhita Yamamoto, Clinamen / Off Rat, 2010
Le elaborazioni di “Clinamen” e “Distare sonanti” costruiscono un moderno compromesso tra il contrasto di atmosfere di Di Domenico e Henriksen: se per entrambi il punto di arrivo è l’arredamento di Satie, mentre Di Domenico proietta il suo “classicismo” a dosi, Henriksen impone la sua liricità. La perfetta integrazione di Di Domenico con Henriksen può essere ascoltata in “Silence is Twice as fast backwards“, dove al tipico fraseggio alla tromba del nordico, il pianista costruisce una lunga e solida base “ambientale”, volutamente dissonante e ripetitiva. Diventa in questo contesto più importante il fattore percussivo (Yamamoto) che riempie le pause e condiziona l’andamento “free”: “Mask that eats water” sembra Hassell accompagnato da un prospiciente batterista free jazz. E’ in questi albums che Giovanni fa uso anche del Fender Rhodes e del synth facendo ben attenzione a non cadere in stereotipi e allontanando lo spettro del “vintage” dell’organo sintetico: Giovanni lo riconsegna ad una visione attuale, seguito spesso da una tensione (anche ritmica) corroborata dai suoi due collaboratori.
Giovanni Di Domenico, Arve Henriksen, Tatsuhita Yamamoto, Distare Sonanti /Either Oar, 2012
In “Distare sonanti” il trio sembra aver aumentato la dose di astrazione sonora: i brani si presentano come appuntamenti sensitivi, dei viaggi sonori in cui rientra lo spirito shakuhachi di Henriksen, con passaggi che rievocano strutture tipiche del jazz-rock davisiano definiti dal synth di Di Domenico che qui diventa il suo strumento dominante e con cui sviluppa in concreto una certa dose di effetti trasversali di elettronica che rendono inattendibile l’atmosfera complessiva. Satie (con qualche eco perduto nello spazio del Bolero di Ravel) si riaffaccia solo nel finale in “Sensire” che chiude questo nuovo contributo alle possibili ricostruzioni tra elementi e generi differenti.
Going, I – Silent Water 2012
Il nome scelto da questo gruppo non è probabilmente casuale: Going potrebbe essere una parafrasi di Gong, il famoso gruppo di Canterbury con cui forse condivide alcuni riferimenti: se Gong sta per l’inizio di un procedimento o di un movimento, Going indica un avanzamento in corso continuo. E la musica ne dovrebbe rispecchiare le prerogative. Qui i synths emuli del progressismo musicale inglese degli anni settanta si uniscono al beat implacabile del duemila: atmosfere che stanno in mezzo al guado tra creazione della trama e reazione sonica. I partecipanti al quartetto, oltre a Di Domenico, sono la tastierista belga dai natali a Honk Kong, Pak Yan Lau, e i due percussionisti, il portoghese Joao Lobo e il francese Matthieu Calleja. L’obiettivo è quello di raggiungere un ragguardevole risultato d’avanguardia tramite una scrittura ampia che comprende anche una serie di rumori/suoni campionati e selezionati al fine di dare un immagine non fredda dell’elettronica combinata con gli strumenti ed aderente all’espressione del gruppo.
Hintanoi, Siyaha ep, Twisted Tree Line Records, 2012
Hintanoi è il progetto “elettronico” di Giovanni immerso nel consueto sperimentare al drone delle nuove generazioni: sebbene la materia sia inflazionata e spesso i risultati non si distaccano da un noioso riporto all’infinito di singole note o accordi, “Siyaha” tira fuori un drone coriaceo che oltre ad avere una buona carica di attrattiva costruita sull’ipnotismo sonoro (frutto di alcune manipolazioni) evidenzia punti di collegamento con lo stile del pianista: dopo la parte centrale di “Siyaha”, quella in cui il drone si arrende di fronte ai rumori riorganizzati, in quella finale il suono ritorna a pulsare come cellule che vogliono farsi ascoltare.
Mulabanda, Lift your toes, Silent Water/Quinto Quarto, 2013
I Mulabanda è il progetto più sperimentale di Di Domenico (un’organico a quattro con Daniele Martini, sax e perc., Bruno Ferro Xavier Da Silva, basso elettrico, e il batterista Joao Lobo): due lunghe suites di circa diciannove minuti l’una che cercano di trovare un giusto equilibrio tra sonorità incarnate dalle macchine musicali e il benessere stabilito dalle risonanze. Un disco creativo dove la scoperta di nuove sorgenti di suono derivato è la prova di una capacità di organizzazione dei suoni che coinvolge anche i territori della musica concreta e dei fields recordings.