Brian Labycz è un improvvisatore di Chicago con una grossa cultura sul synth modulare. Brian non solo è impegnato in molti progetti che lo coinvolgono in manifestazioni di indubbio valore culturale, ma ha aperto una sua etichetta discografica, la Peira Record, dedicando le sue energie all’improvvisazione nel migliore dei modi, nonostante quest’ultima abbia ormai acquisito storicamente un patrimonio disponibile. Difficilmente un’etichetta alle prime armi può vantare la qualità degli artisti e delle opere rilasciate: Brian ci è riuscito quasi naturalmente invitando a suonare alcuni tra i più validi improvvisatori del momento: Guillermo Gregorio, Nate Wooley, Fred Lonberg-Holm, Jason Roebke, Bruno Duplant, Katherine Young, Paul Giallolorenzo, etc. sono i musicisti di questa neonata iniziativa.
Grazie ad una segnalazione sono ora in contatto con Brian a cui ho promesso (con estremo piacere) di recensire alcuni dei suoi attuali 17 cds che mi avevano colpito nell’ascolto in streaming presso il sito dell’etichetta.
Gregorio, Roebke, Labycz – Collectivos & Without Titles
Senza soffermarmi sulle caratteristiche e i curriculum artistici di Guillermo Gregorio e Jason Roebke (con mio danno), la cosa più interessante di questo trio con lo stesso Labycz è le sensazioni che riesce a creare. In un’atmosfera da anticamera del mistero, i tre in “Collectivos” imbastiscono un’ambiente sonoro in cui Gregorio al clarinetto si produce in assoli dissonanti e discorsivi, Roebke è praticamente un basso parlante, mentre Labycz usa i suoni del synth per incollare nel progetto musicale l’attività degli altri due musicisti. Tra scampoli di classicità contemporanea ed ombre sperimentali, i tre creano un’ottima perfomance d’insieme in cui il metodo improvvisativo sembra anche costruito su partiture composte di notazioni anche grafiche e video; inoltre colpisce il riferimento testuale fatto a compositori sudamericani come l’argentino Juan Carlos Paz e il cileno Esteban Eitler, che vengono considerati gli importatori delle teorie atonali di Schoenberg nei loro paesi.
“Without titles” nel confermare l’approccio del trio, cerca di essere ancora più presente nelle trame sonore; suoni discorsivi ed in estensione degli strumenti che si impegnano in un dialogo con i rumori e le articolazioni elettriche del sintetizzatore di Labycz. E’ un contrasto vincente che dimostra come l’improvvisazione (con una adeguata e semplice educazione all’ascolto) può produrre risultati per nulla ostici, creando arte allo stato puro. Questi lavori ci proiettano in un bucolico tema dell’improvvisazione stessa, che potrebbe riferirsi ad un linguaggio del tutto speciale di comunicazione.
Naranjo, Stankova, Young Trio – Verdure into Onyx
L’utilizzo dell’elettronica è il tema dominante di questo notevole trio composto da Ivan Naranjo, giovane compositore messicano, la compositrice bulgara Maria Stankova e la fagottista Katherine Young.
Naranjo è specializzato nei dispositivi che cercano tensioni o attriti tra materiali sonori diversi che possono essere modificati durante la perfomance con interferenze tese ad eliminare la linearità di suono, principale difetto degli oggetti sonori di matrice elettronica; Stankova è interessata alla creazione di mondi aurali in cambiamento che grazie anche alle manipolazioni della sua voce tendono a rappresentare una sorta di drammaticità del linguaggio. Sia Naranjo che la Stankova si esibiscono già insieme nel duo dei Pygmy Jerboa. Invece, figura piuttosto rara nell’ambito del jazz e dell’improvvisazione, la fagottista Katherine Young, sfruttando le possibilità dei pedali, si è già posta all’evidenza per alcuni validi progetti da solista e nel collettivo dei Pretty Monsters.
“Verdure into Onyx“, a prescindere dalle evidenze tecniche, è uno splendido patchwork sonoro che tenta di soffermarsi sulla realtà: è un’elettronica che ha una sua ragion d’essere, autonoma e alla ricerca comunque di un’anima sottostante; la combinazione di suoni apparentemente amorfi, qui trova una sua esilarante modificazione; si tratta di una decostruzione che non è fine a sè stessa, ma che è il tentativo di creare nuovi posti per i suoni del futuro.
Bear, Bertucci Duo – Controlled Burn
L’interessantissimo duo tra il sassofonista baritono Ed Bear e la clarinettista basso Lea Bertucci (conosciuti anche come Twistycat) è una splendida conferma di cosa si possa fare ancora con l’elettroacustica; come giustamente affermato dai due musicisti sax e clarinetto basso possono essere amalgati da poche manovre di ritorno dell’elettronica: lo scopo è quello di raggiungere attraverso il timbro complessivo quella forza necessaria a costruire un collegamento tra udito e mente; il riferimento di un brano a Scelsi non è quindi casuale e ne costituisce un corollario. “Controlled Burn” si compone di minimali e sospensive improvvisazioni ma talmente ben strutturate nel cogliere la risonanza dei due strumenti che si può affermare di essere di fronte ad un lavoro “contemporaneo”, perfetto transito da composizione mistica che, pur nel rispetto del lavoro fatto dai loro predecessori, filtra la realtà odierna (elemento rafforzato dalla presenza di tessiture “radiofoniche”).
Duplant, Héraud, Wooley – Movement and Immobility
Il movimento d’apertura di “Movement and Immobility” sembra l’evocazione di una nave in partenza: un’immagine creata dall’andamento ad libitum degli strumenti del trio formato da Bruno Duplant alle percussioni ed effetti elettronici, Julien Héraud al sax alto e il conosciuto Nate Wooley alla tromba, un’immagine che sviluppa proprio questa specie di controsenso. “Continental drift” è una lunga suite di quattordici minuti che vi accompagnano in un viaggio dell’inconscio dove i suoni sono il transfer necessario per affrontarlo; è una di quelle operazioni che pur non partendo minimamente dall’idea di costruire un prodotto ambientale, ne raggiunge gli stessi scopi. D’altronde i musicisti impegnati non sono certamente estranei a realizzazioni del genere. “Climate and disruption” è la nave in piena rotta che deve fare necessariamente bisogno delle condizioni climatiche: un gioco continuo di percussioni, sax e tromba a sibilo ricostruiscono questa ambientazione. I diciotto minuti finali di “Continuity Strata” ci portano nelle acque inspiegabili del triangolo delle Bermuda: un senso di imminente accadimento pervade la composizione ma che incredibilmente si trasforma in un richiamo serafico e soprannaturale nella parte conclusiva.
Ottimo lavoro, Brian.