Pubblico per gentile accettazione dell’autore questa splendida ed interiore disquisizione sulle possibili risorse future della musica: un’idea celatamente provocatoria, profonda, fuori da canoni prestabiliti, su quello che potrebbe accompagnare il mondo musicale dei prossimi decenni. Le avvisaglie già ci sono. Simone Santi Gubini le evidenzia.
Shock e ambiguità musicale
I think the beauty that we have now has more to do with the relationships that we make, than it has to do with the way we make things, because we are not living in an age of crafts. It is the relationship between things that expresses some kind of spirituality that we have, or the possibility of this.
(Sean Scully)
In my music I try a natural maze, a forest, a wood, an anthill, etc., a human nature, an organic life, because the music is not only abstract, even if it is the greatest abstract art, I think so. The musical language expresses the abstract reality of the natural world of sound, and the reality of life, for me, it is an imaginative process, so, the life same.
(…)
Come compositore mi limiterò a esporre unicamente quello che penso, senza alcuna pretesa di oggettività, in quanto non sono un musicologo, soltanto ciò che vedo nel mio lavoro e in quello di altri, e ovviamente di quel che ancora non conosco, discutendone però in maniera del tutto funambolica e per questo, spero, tanto precisa quanto attenta.
Sono convinto che la musica come l’arte non si è mai davvero compresa, anche se, ad esempio, una moltitudine di persone può dire di aver capito un quadro figurativo. Davvero? Non penso -triste a dirsi ma sembra essere ancora così- perché vedono in questo (molti ma non tutti) una realtà che li circonda riprodotta e non capiscono che non è e non può essere questa un metro di giudizio per la comprensione, proprio perché ciò che deve cambiare è il punto di vista, inteso come un osservare/ascoltare da un’altra prospettiva possibile (e ce ne sono veramente molte!). Una verosimile e primaria prospettiva, o, meglio, ciò che la produce, è per me il grado di ‘radicalità’ che un’opera possiede, perché (semplificando) ciò che sconvolge -e non si può non essere sconvolti per capire- è la massima forma di comprensione che conduce a sorprendenti modificazioni di giudizio.Per esempio, un quadro astratto di Scully è degno se non superiore a un Rembrandt, è la rappresentazione viva di una radicale, profonda astrazione dalla cosiddetta realtà. Purtroppo però, se l’essere umano non vede un albero, una casa, un cavallo, continua a non capire, lo stesso vale per la musica. In musica la vista è secondaria ma, presupponendo, immaginando per un solo istante che questa possa divenire primaria, allora davvero si arriverebbe a capirla, dato che non c’è proprio niente da vedere per ascoltare! L’improbabile è più semplice del possibile, si direbbe allora: elimina un senso e l’altro si raddoppia, in questo caso l’udito. Ma per cominciare davvero ad ‘ascoltare’ si ha l’urgente bisogno di una nuova espressività musicale, a mio avviso, di un’espressività fatta di materialità estrema che si sedimenta all’interno di una serenissima ambiguità (utilizzo questo termine nella sua eccezione positiva, nel senso che possiede quella forza inafferrabile, irrefrenabile, la sola capace di tirar via la terra dai piedi!) nella ricerca in musica di materiali incorruttibili -essa stessa deve poter divenire incorruttibile-, con l’obbligo di raggiungere un radicale punto di non ritorno, in grado di generarla e sostenerla per i prossimi tempi. I materiali musicali devono cambiare proprio come accade in architettura; la musica stessa è un materiale che riconosciamo essere tale e immagino che, un approccio a questo, scevro dal ‘riconoscimento’, cambierebbe il materiale stesso, lo riporterebbe ad uno stato iniziale, primordiale, modificherebbe la musica, o almeno il concetto che si ha di essa, in quanto non si potrebbe più ‘nominarla per riconoscerla’; una musica epurata dall’essere distinta, nuovamente un’espressione libera da qualsiasi appartenenza ad una specifica funzione.
Tre principi, tre funzioni stanno alla base di ogni composizione: l’inerzia, la forza e il ritmo, non importa quale sia l’idea musicale nel principio in cui essa è posta e quindi assoggettata a una funzione, poiché, allo stesso tempo può, deve essere un’idea con un proprio e preciso ruolo d’intervento, indipendentemente dal fatto di assolvere una funzione, ovverosia un’idea che s’installa, che interviene nel principio stesso per rovesciarlo, rimuoverlo e non per essere regolata da esso. Bisogna perciò smetterla di fare musica (come bisogna piantarla di fare pittura, scultura, architettura ecc.) e realizzarla di là di queste costrizioni, in altre parole bisogna cessare d’immetterla in principi che nulla più hanno a che fare con essa e, prima di tutto, raschiare via quell’insana idea di ‘fare musica’, “oggi” questo, non credo sia più possibile. Non faccio musica ma quel qualcos’altro, è come un andare continuamente da un’altra parte, direbbe qualcuno… Si devono far uscire le proprie opere dal mezzo della musica, se si ritorna dentro di questa, i risultati appariranno per certo meno radicali e data l’attuale situazione, aggiungerei: opere che nel tempo risulteranno essere tanto inadeguate quanto inutili. «La creazione musicale implica l’eliminazione radicale di ciò cui si è abituati, lo scoprire ciò che è implicito per sopprimerlo (ancora case e cavalli, ma non solo) e in tal modo rivelare l’essenza di quanto era già stato eliminato dall’inizio» (Helmut Lachenmann). Quindi, un permanente rovesciamento del già noto, un guardare dietro al conosciuto liberando il suono dalla sua aura enfatica, corrosiva e soprattutto da quell’insopportabile retorica che ancora lo avvolge, che addirittura si crede che parli di sé attraverso l’esibizione di un’improbabile lingua, che nulla sa del suo dna in evoluzione. Di fatto, un bagaglio genetico che appartiene alla realtà di un mondo fisico, l’osservazione di questo spetta dunque al compositore, il solo forse in grado di provocare un “incidente evolutivo”, sempre che si voglia raggiungere un qualcosa di veramente diverso, ovvero un’architettura musicale certamente fondata sul rifiuto d’ogni elemento e tecnica storicizzata, nella dimostrabilità analitico-percettiva dei risultati raggiunti. Una qualità implicita della materia musicale carica di una crescente cristallizzazione, una musica che per questo dimostra continuamente la sua unità, identità, ed espressione.
Secondo quanto rinvenuto nel mio lavoro e in parte in quello di altri compositori -circa della mia generazione- come in ‘Art of metal III’ di Yann Robin, ‘Overgrip’ e ‘Change over’ di Vito Zuraj, oppure ‘Charleston’di Franck Bedrossian, sono certo che “oggi” una musica debba assumere un atteggiamento scioccante come non lo è mai stata, non un facile shock di superficie ma quello shock, quell’ambigua e nuova sensazione che forma un individuo molto più di un sospetto sapere intellettuale. Una sorta di «Dymaxion» music, ‘dinamica’, ‘massima’, ‘tensiva’, mai statica, costantemente quieta e contrastiva. Contrastiva e quieta? Mettere in competizione significa creare una relazione, il contrasto genera un rapporto, rende una relazione più chiara (senza dimenticare che non può esistere concetto senza il suo opposto) e il carattere del contrasto decide di una relativa tensione e stato di quiete, quindi di una musica a un tempo parossistica e apparentemente immobile. Ora, se il tutto è in “centrifugo” movimento, l’esterno è ur-dinamico e l’interno ur-statico, e ragionando per analogie, una prima e semplice similitudine è di un fenomeno naturale come il ciclone col suo celebre ‘occhio’, una seconda, la possibilità di osservare la terra dallo spazio esterno e parallelamente la facoltà di percorrerla al suo interno (…) É come partecipare di un fenomeno macrobiologico dove tutto è in continuo movimento e tutto istantaneamente visibile ma assai vasto per essere compreso in un breve intervallo.
Pertanto, una musica continuamente:
dinamica,
ipertrofica,
di espressione immediata,
formulata in una dialettica strettissima di opposte articolazioni,
fatta di timbrica ruvidezza,
da dinamiche late,
diagrammatica,
che sfrutta l’uso di registri estremi,
di contrasti dialogici,
di opposti volumi su scale di grandezza differenti,
di ordinate reiterazioni,
che utilizza “risonanze d’articolazione”,
tessellata per lo più in “moduli” sonori disposti in ordine crescente/decrescente, su modelli di scala diversi,
disposta istantaneamente su più dimensioni,
composta da molteplici silenzi,
ametrica,
periodica,
(…)
Tutte analogie queste, certo, aggiungerei tanto insufficienti quanto astratte per descrivere quello che una musica, o, meglio, la gestione dei materiali può, concretamente, ancora fare, eppure necessarie, un “male necessario”, per rinnovare quell’habitat particolare in cui si muove quanto esposto finora. In altre parole, quell’elementare fenomeno fisico che si viene a creare quando si è in presenza di una musica, una musica, voglio dire, naturalmente in grado di generare una variazione nell’atmosfera, una tangibile perturbazione dell’aria. Un’aria, di per sé, «né buona né cattiva ovvero tanto buona quanto cattiva» (Paul Klee). In fondo si tratta solo di musica.
Simone Santi Gubini (Graz, febbraio 2013)