E’ stato pubblicato da poco il primo vero sforzo solista del chitarrista Johnny Marr “The messenger“, un cd teoricamente composto per soddisfare i vecchi fans degli Smiths. Nei controversi anni ottanta l’effervescenza della chitarra di Marr era qualcosa di particolarmente apprezzato nel mondo della musica tanto da suscitare anche improbabili comparazioni di stile: anche in Italia la gioventù di quegli anni era molto succube dei movimenti musicali inglesi e si divideva a grandi linee nell’apprezzamento in due grandi tronconi, quello del pop edulcorato e gioioso di artisti o gruppi come Joe Jackson o gli XTC (per non scadere in quello da avvoltoi da classifica come Duran Duran e Spandau Ballet) e quello dark, ritenuto approfondimento del rock claustrofobico e in modalità punk inaugurato dieci anni prima dai Joy Division; gli Smiths non solo appartenevano al secondo troncone, ma erano il principale aggiornamento a quell’asse storico. Il primo ed insuperato album omonimo del gruppo del 1984 , “The Smiths“, forniva la più precisa ed adeguata collocazione temporale del fenomeno della depressione silente trasferita in musica: se questa era già divenuta ansia ed espressione artistica grazie alle bordate di gente come Siouxsie, Cure, Magazine, etc., con gli Smiths assume i connotati di un dolce stato d’essere della gioventù impegnata nella lotta per uscire dall’isolamento sociale ed esprimeva realmente il modo con cui ci si connetteva con il mondo in quei tempi; la chitarra di Marr, nuova esposizione di un arpeggio jingle-jangle di matrice byrdsiana, leggermente arroccato sulle nuove tendenze tanto da non farne un clone, si univa alla debordante personalità di Morissey, in possesso di una serie di qualità artistiche non comuni: voce lamentosa e confortevole allo stesso tempo condivisa tra il tonale e l’atonale, con vocalizzi che mutuano varie situazioni non provenienti dalla musica rock, un modo “lirico” di cantare e soprattutto una carica “poetica” dei testi che faceva intravedere la passione del cantante per la letteratura di Wilde e per i fiori delicati e colorati monumento di contrapposizione simmetrica del romanzo del ritratto di Dorian Gray. Un connubio vincente che si componeva dei temi principali dei giovani (amori non corrisposti, ansia del vivere, omosessualità, etc.) che perfettamente delineava una nuova specie di poesia oscura. Questo connubio si ripropose musicalmente ancora molto bene nei successivi “Meat is murder” (in cui le fantasie in arpeggio e assolo di Marr acquisiscono massima efficacia e dove emergono anche le istanze vegetariane di Morrissey) e “The Queen is dead” (probabilmente inferiore ai primi due per via di un minor impatto dei testi e una maggiore ricerca della litania). Dopo l’ultimo episodio “Strangeways, Here we come“, i due principali attori del gruppo si separarono seguendo sorti diverse: oscurandosi in una specie di oblio ed ozio Marr (che formerà dei progetti estemporanei senza significato di pop elettronico ed altri chitarristici dove sembra addirittura non notarsi la sua presenza), mentre Morissey prenderà per mano la sua carriera solistica con una serie di albums cloni, dove la forza musicale e poetica mutuata dal gruppo strizzava l’occhio al denaro e alle vendite. Il ritorno di Marr è quanto di più obsoleto si potesse pensare, una spersonalizzazione del suono evidente sorretto da tanta produzione (sembra di ascoltare un disco minore dei Church o di un anonimo gruppo psycho-garage) che fa rimpiangere quello splendido episodio di “art-rock” del 1984 e purtroppo conferma il ridimensionamento del personaggio visto anche nell’ottica di musicista in grado di sopperire con la protesta alle esigenze di una vera arte dell’espressione.