Noam Chomsky fondando la teoria della grammatica generativa diede spunti simili anche nel campo musicale: così come era possibile per ogni essere vivente avere un proprio dna linguistico funzione della sua formazione, era possibile che allo stesso tempo da quell’uomo potessero scaturire nuove parole o frasi “creative”, non riconducibili tout court alla sua specifica grammatica. Il compositore Fred Lerdahl (1943), che attualmente ricopre uno dei posti più àmbiti della formazione classica americana, ossia la cattedra di composizione alla Columbia University di New York, ne mutuò i principi trasferendoli nel linguaggio musicale: scrisse uno dei libri teorici più interessanti degli ultimi quarant’anni, dopo anni di interrogativi sui punti di connessione della musica contemporanea con il pubblico*: “A Generative theory of Tonal Music” dimostrava che anche per la musica si sarebbe potuto enucleare una sua “grammatica” così come percepita nell’esperienza dell’ascolto, la cui funzione “creativa” (indiscutibilmente presente) passava da una necessaria struttura di elementi musicali e da una loro sistemazione gerarchica in posti e valori. Questo approccio linguistico alla cognizione musicale gli consentì di operare un primo filtro sul tasso di profondità della composizione così come descritto in questa frase da lui pronunciata “…. the musical surface must be available for hierarchical structuring by the listening grammar…..”, superficie basata su precostituite gerarchie di toni, dinamiche sonore, ritmi, etc. che sono gli elementi su cui si poteva fondare quel test della cognizione responsabile di indagare sull’importanza e profondità della composizione musicale. E’ nota anche la sua critica al serialismo e alla recente scena compositiva europea: sebbene condividesse con i serialisti l’idea di un condizionamento imposto dalla particolare preparazione (anche culturale) dei suoi partecipanti, ne rifiutava la portata storica degli stessi in quanto non capaci di esprimere un linguaggio “organizzato”: specie nella serialità avanzata, egli ribadiva come la mente non fosse in grado di individuare un linguaggio che si presenta arbitrario, senza regole di gerarchia su impianto melodico, timbrico o ritmico. Quanto invece all’Europa compositiva, Lerdahl sembra mettere in evidenza molte ombre che veleggiano nel pensiero accademico odierno, ribadendo contemporaneamente la specificità della parte statunitense “...in Europa, dopo le straordinarie indagini sul timbro di Lachenmann e Sciarrino, vi è ora una involuzione nella ricerca sul rapporto sintattico tra suono e rumore. La mia opinione è che ci sia troppa retorica e poco sviluppo. L’Europa sembra temere e fuggire dal proprio passato, mentre l’America, che ha una storia culturale giovane, spesso è carente nella conoscenza delle radici che l’hanno fondata. Il risultato è che mancano prospettiva e direzione.….”. Per Lerdahl le influenze maggiori nelle nuove generazioni di compositori sembrano rivolgersi verso autori come Ives, da sistemare allo stesso piano di quelle di Ligeti o Messiaen, oppure di autori recenti particolarmente vicini alle conoscenze dell’informatica musicale, mentre molto più riduttive sembrano le influenze di compositori come Cage e Feldman (che vengono ritenute più incisivi per l’evoluzione della scuola europea) e quelle dei creatori dell’estetica del minimalismo americano negli anni settanta (Adams, Glass, Reich, etc.).
Lerdahl aggrappandosi a questi principi ha tentato di scoprire un volto nuovo della composizione musicale, che stranamente però lo hanno inevitabilmente riportato in un alveolo di conoscibilità storica che sembra muoversi tra tonalismo e primo serialismo. Se lo scopo di Lerdahl era quello di creare nuove modalità di abbinamento di stili ed epoche diverse, rigettando solo il serialismo integrale, è in quello che è riuscito; in particolare nell’àmbito delle poche incisioni discografiche si segnala un’ottima raccolta compilativa per la New World Records (con quattro composizioni rappresentative) in cui si può apprezzare il raffinato lavoro svolto agli archi nelle miniature dei suoi “Waltzes” e i climax degli “Fantasy Etudes“. Lo stesso raffinato lavoro si può ascoltare nei suoi tre “String quartets“, assemblati finalmente in luogo comune per la Bridge R. che ci presentano uno scorcio bellissimo di romantica atonalità, nel quale si afferma una pastosa e dinamica personalità artistica.
Note:
*in un’intervista a NewMusicBox, Lerdahl in maniera lucida spiegava: “…Near the beginning of my composing career, around 1970, I underwent a crisis of belief. Modern music had splintered into mutually incompatible styles, each with its own aesthetic, and any coherent sense of the historical trajectory of art music was gone. Contemporary compositional methods were often highly rationalized but inaccessible to listeners except by conscious study. I sought instead to establish my music on a foundation free of the labyrinthine history of twentieth-century music and its often perceptually obscure techniques……..I wanted to base my musical development not on history but on nature. Such a quest has a long history in many guises, and mine was nothing if not utopian. But a young composer worth anything at all must have big dreams…..”