Non è una novità il fatto che i musicisti che hanno fatto tout court la storia dell’elettronica siano rimasti fedeli ad un ideale espressivo che non cambia con il tempo e con gli ammodernamenti imposti dall’avvento dei computer o comunque dei digital media: quindi è raro trovare tra quei pionieri qualcuno che, pur senza abbandonare l’ipotesi musicale di partenza, abbia cercato dei correttivi. Se oggi si ascoltano gli ultimi lavori discografici di Klaus Schulze ci si accorge di come il musicista tedesco non fosse solo il frutto di una di quelle tendenze modaiole destinate alla non persistenza ma fosse un artista colto, con un suo pensiero musicale ben preciso ed attuabile; Schulze ha dimostrato di deviare il tiro diverse volte, cercando di aggiungere nuovi elementi o percorrendone altri, pur mantenendo il contatto con un substrato di tecnologie che fa riferimento sempre al periodo del boom del settore, ossia tra i settanta e gli anni ottanta. Benchè questa posizione possa essere criticata, nell’ultimo decennio Schulze (che ha davanti a sè i rappresentanti della terza generazione della electronic music), si è mosso con progetti più o meno centrati musicalmente, che proiettavano la sua apparente scolastica visione musicale da synths nelle esperienze che potessero integrarsi con il suo linguaggio: della moderna trance music alla rivisitazione aliena in funzione celebrativa dei Moogs di esplicita memoria pink-floydiana, o all’avvicinamento alla musica classica avvenuta sia attraverso il retaggio dell’opera (si pensi a “Das Wagner Desaster”, a “Totentag”) o dei suoi canoni principali (nei quattro volumi dei Ballett); l’ultima variazione che pervade il recente “Shadowlands” è su questi ultimi aspetti che cerca di lavorare, poichè consolida l’esperienza “voce” (i particolari vocali vengono affidati alle evoluzioni ora smarrite ora disperate delle cantanti Lisa Gerrard, Julia Messengers e Chrysta Bell) e “violino” (un Thomas Kagermann mimetizzato nell’amplesso strumentale con supporto style-oriented alla voce): ne viene fuori uno dei dischi più maturi di Schulze, per nulla scontato, in possesso di un carisma e di un progetto assai ben più valido di molti mal interpretati soprattutto nei novanta. 5 lunghi brani (cercate di procurarvi l’edizione limitata in due cds con due brani in più) che vi faranno navigare in una dimensione coagulata del tempo, con echi di epoche diverse e di popoli diversi, una commistione tra respiri barocchi e classici e cerimoniali tibetani, un’ode drammatica che accomuna il canto operistico e la perdita di coscienza scandita dal tribalismo. E’ in questo gioco di incastri tra dimensioni storiche e culture apparentemente diverse e che già elevava il percorso di dischi come “Farscape” che si trova l’unicità dell’odierno di Schulze.
Nota: Etichetta Synthetic Symphony distribuita anche da Projekt R.