Come qualche appassionato del settore avrà notato il cognome Traoré è piuttosto diffuso nella musica del Mali (vedi Boubacar o Lobi) e d’altronde questo si spiega anche con la concezione patriarcale ed ereditaria dell’arte musicale in quel paese. La Traorè di cui si parla qui è Rokia, di cui è recentemente stato pubblicato un nuovo episodio discografico, “Beautiful Africa“. Rokia venne alla ribalta della musica di quella regione nel 2000 con “Wanita” in cui la stessa mostrava tutto il suo intento programmatico; se fino ad allora i maggiori rappresentanti erano stati uomini, con Rokia vengono rotti gli indugi dell’omertà e presentati nuovi aspetti della cultura di quel paese. Al di là della mancanza di titolo già citata prima in merito alle possibilità artistiche previste solo dall’appartenenza ad una famiglia impiegata in quello scopo, Rokia voleva mettere in evidenza non solo un suono (che come sappiamo in Mali era stato già abbastanza sviluppato fino a quel momento) ma anche una civiltà, una diversità di vedute sulla vita rispetto agli occidentali, un modello di semplicità che si basava sui rapporti freschi e senza opportunità delle donne del Mali, contemplando allo stesso una maggiore apertura nella coscienza sociale (una buona opportunità per comprendere il suo pensiero sarebbe la traduzione dei suoi testi cantati in lingua bamana). Dal punto di vista musicale, quella specie di messaggio criptico che fuoriesce dall’incrocio tra la generica tradizione musicale del Mali e un senso spiccato del ritmo, proiettava la Traoré in una particolare dimensione della musica del suo paese, che la vedeva vocalmente inquadrata nelle tonalità labili dell’etnico giovanile (all’epoca di Wanita aveva 25 anni) ed in possesso di una vena lirica fiera che a molti ricordava impropriamente essenze delle folksingers statunitensi; sebbene in Wanita non ci fossero venature pop (così come paventato dalla critica), Rokia riusciva ad offrirci uno spaccato di una giornata in un villaggio intorno a Bamako: inutile ricordare che quel disco entrò nel meglio di molta critica specializzata. Diventata una star della world music, Rokia tornò ad incidere nel 2004 con “Bowmboi“, una raccolta che cercava di mediare la spontaneità del linguaggio con una quadratura più ricercata sull’appoggio determinato dai suoni: accanto a brani straordinari come “Mariama” si affiancano le dubbie ibride operazioni svolte con il Kronos Quartet: il tutto suona più aulico ed austero che world, più meditativo che naturale. “Tchamantché” pubblicato nel 2008 è ancora diverso: sullo sfondo della discussione per la conquista dei diritti fondamentali della società del Mali, la vocalità si sfronda spesso in un’eterea fragranza pop di contrasto che le conferisce un maggior spessore da cantante confidenziale: se certe le idee non mancano, l’artista è spiazzante per i suoi continui cambiamenti.
“Beautiful Africa” sembra una risposta guerriera agli ultimi accadimenti in Mali: la forza etnica (chitarra, voci e n’goni strings) viene rafforzata da un trio di strumenti rock (chitarre elettriche e batteria) costruendo ancora una svolta; coniugando lo sforzo di rappresentare le usuali tematiche sociali con quelle politiche, Rokia acquista energia decisive che la portano nel pericoloso ed evanescente labirinto della fusione inter-etnica, dove alla fine l’omogeneità musicale è incerta e una solida presenza è quella che rinviene dal messaggio “…. Je ne peux simplement pas me résigner à l’idée qu’il n’y a rien à faire. Si je crois autant en l’Afrique, c’est parce que, dans ce monde de pouvoir et de puissance où elle n’est pas considérée, elle est précisément l’un des derniers endroits où tout reste toujours à découvrir et à faire…..”.