In queste pagine si è più volte sottolineato come la prospettiva musicale contemporanea proveniente dagli Stati Uniti sia ancora piuttosto distante da quella europea: mentre la prima abbraccia e gioca con i fantasmi del passato, la seconda si mantiene ancora molto rigorosa con le presunte incongruenze dell’odierno; i compositori americani hanno da tempo verificato sul campo l’indirizzo assunto del pubblico e dagli addetti ai lavori adeguandosi quasi spontaneamente, mentre la nicchia europea resiste ancora oggi e tende addirittura a rafforzarsi nel cercare di ampliare i suoi confini. Tra i teorici americani di una certa consistenza e ancora viventi, il compositore Samuel Adler ne riflette uno status tutto personale: Adler non solo è un integerrimo insegnante di composizione che ha avuto il merito di sistemare tutta la materia orchestrale in un libro didatticamente molto curato che è diventato di dominio pubblico (la terza edizione di “The study of orchestration” è stata tradotta anche in italiano), ma anche un “pensatore” della musica che al pari di molti suoi colleghi (Lerdahl, Rouse, etc.) si è posto molti interrogativi sui punti limite di una spersonalizzante scrittura avanguardista anche e soprattutto in relazione al gradimento effettivo dell’audience: il problema di voler mantenere come formula efficace ed appariscente la convivenza di fattori noti e con caratteristiche ben definite, ha nel concreto avuto un parametro di inatteso riscontro nelle nuove generazioni di compositori statunitensi che hanno allontanato quasi in toto la matassa dell’approfondimento delle tematiche contemporanee più estreme (anche quelle minimaliste che negli ultimi tempi sembrano avere un ritorno di apprezzamento più forte in Europa piuttosto che negli Usa), riconducendo le loro velleità espressive alle regole di Schoenberg, Webern o Hindemith: che si tratti di una dichiarazione di impotenza nel confronto del futuro questo è discussione tutta da affrontare, ma la realtà è che coloro che hanno tentato di approfondire determinati aspetti della musica contemporanea più avanzata hanno dovuto allontanarsi dalle università americane o dalle scuole musicali non specializzate; in tal senso la sclerotizzazione di gran parte dei conservatori europei è fenomeno di similitudine con le parimenti scuole d’oltreoceano.
Adler (1928), noto soprattutto come conduttore, ha invece scritto molto nella sua carriera, passando da quel momento storico di rafforzamento delle potenzialità delle orchestre che investì il mondo accademico americano nella seconda parte del novecento, alle prese con una crisi economica e concettuale dell’attività orchestrale: le sue platoniche sinfonie, i suoi quartetti d’archi che sanno tanto di ricongiungimento artificioso, e tanta musica vocale e strumentale (in cui è visibile la radice culturale ebraica) non depongono certamente a suo favore; Adler mostrò forse più coraggio e slancio creativo nei concerti per pianoforte, nel concerto per viola (che aderiva allo sviluppo orchestrale di Piston) e soprattutto nei suoi “Cantos“, organizzazioni compositive scritte per strumento suonato in solitudine, che avrebbero avuto il compito di costruire delle improvvisazioni “scritte” utili per esplorare il potenziale sonoro degli strumenti, un’operazione in antitesi con le storiche registrazioni in stile bignami della contemporaneità fatte da Berio nelle “Sequenze“: sebbene nell’anno di partenza delle sue creazioni (1970), parecchi degli strumenti utilizzati avevano comunque già avuto una adeguata esplorazione che proveniva non solo dal campo classico (vedi per esempio la letteratura quasi integralmente jazzistica del sax), queste raccolte sono una sorta di esplicazione del pensiero laterale di “The study of orchestration“, dove un’ampia gamma di soluzioni apparentemente scolastiche attuate con l’utilizzo di tecniche moderne e non particolarmente votate all’estensione, avevano il compito di restituire virtuosismo e piacere d’ascolto.
La Naxos ha pubblicato qualche mese fa tutti i “Cantos” relativi agli strumenti a corda (violino, viola, cello, contrabbasso, chitarra, arpa) andando a colmare parzialmente il vuoto discografico sull’argomento che si avvaleva di un’incisione fatta in passato di un volume dedicato ad una selezione di strumenti a fiato (tromba, trombone, clarinetto, corno francese, piccolo, sax, fagotto). Adler li chiama anche concert etudés, per via della loro brevità, 21 studi compilati tra il 1979 e il 2009 a cui oggi bisogna riconoscere quella dignità compositiva che Adler fa di tutto per agganciare all’autenticità degli esecutori e ad una famelica visione interpretativa, frutto di un difficoltoso lavoro di selezione sulle partiture e sui musicisti.