L’esordio di Yasmine Hamdan per molti potrebbe rientrare nella iconografia pop che da tempo attanaglia gran parte della musica etnica in giro per il mondo: prima della guerra civile, Beirut era diventato uno dei centri culturali più in vista del medio oriente e rivaleggiava in importanza con il Cairo; anche qui cantanti tradizionali come Wadi Al Safi, Sabeh o Fairouz dopo la tregua hanno subito il fiancheggiamento di molta insulsa pop music (sia del posto che importata). La Hamdan, appartiene a quella schiera di cantanti che, dovendo necessariamente vivere fuori dal proprio territorio d’origine, hanno abbracciato la teoria del raccontare guardando dall’esterno, formalizzando la passione per la propria terra in un canto distillato che molti ritengono possa essere una “moderna” faccia della musica della regione: una sorta di canto folk di stampo etnico; in verità mi sembra che, come successo in altre regioni del mondo, si voglia guardare il problema solo da un’altra prospettiva; sia pensando a nuovi Dylan orientali , sia pensando all’originalità di una proposta ethnic pop, quelle della Hamdan appartengono più alla categoria dei risultati che delle scoperte, e basterebbe fare qualche passo indietro nel tempo e nello spazio rimarcando quello che è successo nel Nord Africa e pensando a musicisti come il senegalese Youssou’n’Dour di “The guide”, che volutamente cercava un prodotto di pop equilibrato, ben fatto e di sapore tradizionale, per accorgersi delle similarità; il problema è che, come si paventava prima, in queste operazioni riveste un ruolo fondamentale la costruzione del prodotto musicale per evitare gli sconfinamenti in operazioni musicali prive di interesse e risapute; tuttavia la Hamdan è personaggio interessante, perchè in alcuni episodi perfettamente centrata; “Ya Nass”, pur essendo ancora immaturo, lancia degli spunti di tutt’altra levatura che sostanziano quella “modernità” che qualcuno le attribuisce: la rielaborazione in chiave moderna del repertorio arabo; la Hamdan afferma “.…amo la cultura araba e odio il modo con cui il mondo arabo viene ritratto nella stampa di oggi……la musica araba ha creato i miei punti di riferimento ed è grazie ad essi che sono dove sono……sento di cantare per Beirut sia realizzando quello che per me è la città, sia come esule….un amore impossibile...” Queste frasi sono quantomeno propositive nel rivelare un rinnovato impegno per lo spirito della musica tradizionale, che oggi per imporsi ha bisogno di essere combattuta al suo interno con elementi seri e credibili, così come è successo per gli strumenti che grazie a compositori e musicisti particolarmente avveduti hanno non solo avvicinato le due culture cardine del mondo, ma hanno saputo creare delle efficienti modalità di interconnessione con progetti ricostruttivi.
Quale futuro per la world music araba?
Philip Vilas Bohlman nel suo libro “World music una breve introduzione“, a proposito del ruolo della musica araba scriveva: …” benchè contrassegnato da una situazione paradossale, il congresso di musica araba tenuto al Cairo nel 1932 ha costituito uno spartiacque nella storia della world music del XX secolo. Per molti studiosi di musica araba quel congresso ha segnato il momento in cui la loro musica è tornata a far parte integrante della storia della musica mondiale…” ; in quel congresso in cui parteciparono le delegazioni degli stati arabi e alcune personalità della loro musica (tra cui la famosa cantante Umm Kulthum), compositori illustri come Bartok e Hindemith ed etnomusicologi come Sachs e Lachmann, il paradosso stava nel fatto che mentre gli europei tendevano a difendere la “tradizione” relegandola ad un glorioso confine senza attribuirgli nessuno spazio futuro, gli arabi avevano idee più moderniste poichè miranti a fare un salto di qualità sia nel mescolamento degli idiomi, sia in termini economici per aumentare la diffusione e la promozione discografica.
Gli anni novanta, poi, sono stati senza dubbio un’altro crocevia per gran parte della musica etnica: passata la sbornia della ripresentazione di cornici tradizionali e di nuove edizioni rivedute e corrette di prodotti pronti per l’ennesima commistione con la musica occidentale, i musicisti si sono trovati di fronte a dure scelte poichè hanno quasi sentito di aver finito le munizioni; se per molti il problema non era poi così tragico poichè forse non avevano avuto il tempo di sviluppare una propria coscienza musicale che evitasse di dar vita ai loro sfoghi artistici senza preoccuparsi di preservare il lato culturale ed estetico della musica, solo alcuni hanno affrontato i rischi di una depauperazione dello spirito e dei valori delle musiche delle loro etnie fornendo adeguati spunti creativi.
In una delle regioni politicamente più compromettenti per gli scopi della musica, il Medio Oriente, il passaggio da musiche prettamente tradizionali a quelle con matrici occidentali ha rimarcato tutta la difficoltà del passaggio: se in alcune zone è risultato impossibile tale trasposizione per evidenti motivi religiosi, in altre l’apertura ha seguito modalità popolari che certamente non sono state quasi mai un passo in avanti nella prosperità estetica della loro musica; prendete un paese come l’Egitto, o andate a Cairo e verificate come l’arte musicale non abbia fatto nient’altro che sostituire la bellezza adamantina del canto della Umm Kulthum (e di altri cantanti tradizionali) con i generi moderni (shaabi, al jil, etc.); il miglioramento che si dovrebbe teoricamente ricercare avviene dall’esterno del paese (in questo, purtroppo, riconoscendo la difficoltà delle evoluzioni politiche nella regione) con musicisti che si recano all’estero (soprattutto in Francia per evidenti affinità elettive) e sulla base di backgrounds musicali giustamente poliedrici si immergono in una valanga di concetti creativi sub-moderni che guardano però soprattutto al gradimento del popolo. Non a caso ogni volta che si sono verificati diaspore o problemi di ordine politico e sociale, la musica di questi paesi ha nutrito rafforzamenti, accompagnando queste evoluzioni. Alla fine è sempre del popolo che si deve parlare (un concetto che a ben vedere è identico negli occidentali) e non esiste quella differenziazione di audience che ad esempio la musica occidentale contemporanea ha avuto il coraggio di imporre anche nel canto.
Per chi ascolta la world music di regola sa benissimo che il Medio Oriente, almeno per quanto riguarda la musica popolare, ha vissuto su tre elementi tradizionali: la musica composta tramite la varia e regionale liuteria (oud in primis e tanti altri strumenti a corde), le aggregazioni orchestrali e il canto. Riguardo a quest’ultimo non si può dire che non ci siano state nuovi cantanti negli ultimi anni: date le recenti pubblicazioni discografiche, prendiamo come riferimento la cantante di ascendenza egiziana Natacha Atlas e l’esordio della libanese Yasmine Hamdan. La Atlas nel corso della sua carriera ha svariato molto nella proposta subendo l’influsso delle danze moderne occidentali, passando dalla musica tradizionale degli esordi ad un pesante retaggio di elettronica che per fortuna sembra essere svanito negli ultimi episodi che dichiaratamente si rifanno all’amore per i suoi cantanti preferiti (Abdel El Halim Hafez, Farid Al Atrache) in un sabba che ha però elementi latini e jazzistici di dubbia interpretazione. La lettura di alcuni articoli sul web sulla cantante dimostrano come in un settore come quello della musica etnica dove si fa fatica a comprendere efficacemente i pensieri critici, la Atlas rappresenti un evidente caso di quella confusione che colpisce i musicisti di cui si parlava prima: la creatività nella musica etnica oggi non può esplicarsi con solfurei miscugli di elementi che la depotenziano, ma va preservata trovando basi adeguate per realizzare un progetto di valore. Tutto quello che è stato fuso tra culture differenti avrà sempre bisogno di un filtro, ma non è opportuno che le mode e le tendenze (che hanno poco a che fare con un percorso impegnato quantomeno in sala di produzione) siano le principali cause del mancato miglioramento: proprio per Natacha tutti parlano bene del suo impegno politico e del suo periodo intriso nell’elettronica dance, indicando fattori di modernità francamente difficili da inquadrare, ma nessuno si ricorda di “Foretold in a language of dreams“, un cd del 2002 prodotto da Marc Eagleton, che mostra contaminazioni vincenti tra etnico e ambient music; oggi uno dei meno anacronistici sviluppi della world music moderna potrebbe ripartire da un lavoro più selettivo sugli strumenti, su una tecnica di produzione che non esalti il solo aspetto ritmico ma dia valore alle “costruzioni sonore” che devono tener conto comunque della tradizione per non destrutturare completamente la proposta.