Morton Feldman: Pensieri Verticali

0
1194
Ron Cogswell Mark Rothko 'The Classic Paintings' -- Top Gallery East Building National Gallery of Art Washington (DC) 2016, https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/, no change
“Alles zusammen”
Morton Feldman  Pensieri verticali
Chiarezza a qualunque costo
(Stendhal)
Feldman: «Tiziano aveva mestiere, Matisse aveva maestria (…) la musica non ha mai avuto il suo Matisse». Capire che cos’è il colore, lasciarlo libero in una vasta superficie. La musica di Feldman? Colore, le gradazioni del colore (come in Ad Reinhardt) strumento, ripetizione, e traduzione, come in Beckett? Il minimalismo non c’entra, è solo questione di mantenere quella tensione e, soprattutto, quella stasi, la stasi è già tutta in Matisse, così come in Feldman, un’illimitata distesa di colore oltre i bordi di una qualsiasi tela, dai contorni sfumati, e tutti insieme (alles zusammen) come nel piano pittorico che qui diviene piano aurale dell’orecchio, una bolla in assenza di gravità attenta a non cadere in terra. Quale terra? Il ‘sistema’ e quale sistema in Feldman? Quello di un pittore. Feldman aggiunge spessore, distribuisce colore, diluisce vere e proprie campiture e pigmenti di suono ed è sempre attento a quel che il materiale richiede; non gli interessa pensarlo, lo sente e basta, non tanto il suono, quanto la preferenza per certi strumenti da parte del suono o come la materia musicale possa essere plasmata restringendo il tempo, oppure, con opere come ‘Intermissions’ (1950), ‘Extensions 1-5’ (1951-‘53) che, nello spirito della ‘Sinfonia’ di Webern, rivelano una miriade di significati con un numero estremamente ridotto di altezze. Una grande economia di mezzi ma, cosa ancor più importante, per i futuri sviluppi della sua musica, è l’estinzione del suono come materiali di risonanza, le diverse modalità di estinzione e inviluppo del suono, come i timbri degli strumenti risultano essere indipendenti ed allo stesso tempo interdipendenti e in particolar modo irriconoscibili (non come in Lachenmann) l’ostinata fluidità dei suoni isolati, la frizione verticale delle armonie ecc.
Considerando ora – con esclusione del magnifico “apprendistato” strutturalista degli anni cinquanta – partiture come ‘Why Patterns?’ del 1978, ‘String quartet’ (1979), ‘Trio’ (1980) ‘Crippled Symmetry’ del 1983 o ‘Coptic light’ del 1985 (un grande pedale orchestrale ricco di sfumature, che ritengo essere il suo capolavoro) si guarda ad esse ed alle diverse misure che le scandiscono come ad una grande simmetria sproporzionata nel ritmo e nella lunghezza delle frasi che le sorregge. Non si tratta di vere battute con una loro regolare pulsazione bensì di un reticolo atto a far sì che l’esecutore possa orientarsi nello spazio-tempo. Le figure, invece, sono spesso più lunghe di quanto scritto, un esempio: nel ‘Trio’ l’indicazione di Feldman apposta in partitura riguardante tale aspetto è sottolineata a partire dal tempo metronomico, Feldman segna: 1/4 + 1/8 = 1/4 + 1/8 + (1/16). Nessun pattern ha il sopravvento sugli altri, cos’è un pattern? Colore – pausa – colore della pausa: colore. Un altro espediente, spesso nelle sue opere le battute hanno una cornice simmetrica di tempi di silenzio piuttosto lunghi. Un esempio, in ‘Why patterns?’, flute: 5/8 ( = silenzio) – 3/16 ( = suono punto / linea – frase) – 5/8 ( = silenzio) ma sempre di colore si sta parlando! E, ancora, il ritmo: perché una quintina o settimina di un glockenspiel viene accelerata nell’esecuzione? Perché subisce inevitabilmente una accelerazione propulsiva legata alla sola proprietà di essere un gruppo irregolare proporzionale ai cambi di registro. I gruppi irregolari in Feldman vengono articolati in tal senso; è lo stesso pattern di colore che subisce una variazione ed allo stesso tempo una variazione propulsiva proprio perché costituisce un elemento di novità. In questa musica però non esiste nessuno stile ritmico, come nello ‘String quartet’ dove ogni strumento ha un proprio “metro”, ogni parte consiste soltanto di lunghezze di battuta diseguali, perciò tale procedimento non può essere visto e quindi confuso sul piano ritmico della risultante sincopazione (che non segue alcun pattern verticalizzato tra gli strumenti). Ogni pattern di ciascun strumento è proprio dello strumento a cui è assegnato ed ogni figura non corrisponde al rispettivo valore reale, proprio come in Webern, ma è più lunga, è allargata sulla pausa che segue. Invece, i pattern accordali ripetitivi (tipici di Feldman) possono non essere in progressione, ma presentarsi a intervalli di tempo irregolari, così da ridurre l’aspetto compatto della costruzione a pattern; mentre i pattern più ritmici (più evidenti) possono in certi momenti essere “melangiati” per nascondere la loro periodicità, ma sempre intesi come autonomi. L’interprete deve quindi straniarsi da qualunque intenzione personale, qualunque, traendo dal proprio strumento suoni limpidi ma volutamente freddi, che ignorano persino l’amato vibrato, il vibrato è dunque finalmente bandito! La migliore esecuzione di questa musica è non interpretarla, un distaccato rapporto con essa è cosa più onesta, è necessario il più lontano distacco per poterla esprimere, per poter esprimere quell’oggettività di suoni, soltanto ciò che serve, un’oggettiva verità, direbbe Pärt.
Un’opera, quella di Feldman, impegnata, non meno di Messiaen o per l’appunto di Pärt, a creare delle alterità spirituali – anche grazie all’estrema durata di alcune sue opere ed in particolare le più lunghe come: ‘String quartet II’ (1983) di sei ore e ‘For Philip Guston’ (1984) di cinque, che la rendono monolitica – in grado di affermare la trascendenza della musica che tutto cancella, tutto disinfetta. Questa musica, veramente raffinata, delicata, è fragile, composta di lievi sfumature intorno al silenzio ma, allo stesso tempo, liquida, densa, tensiva, composta di molle, cavi e tiranti, come una tensostruttura che sorregge tela o lamiera, robusta e consapevole della propria espressività. Nessuna tenerezza vi è concessa, nessun sentimentalismo, è soltanto ‘naturale’, acusticamente fuori controllo e la violenza della sua presenza costringe nell’ascolto a una continua focalizzazione dello spessore del suono, ora denso, ora rarefatto, sgranato e solido – si ha quasi la sensazione di poterlo toccare anche se con un certo timore – è come una belva che vive nella foresta vergine, non in un metodico, organizzato giardino zoologico! Niente gabbie quindi, bensì un tempio, una nuova Persepolis come può soltanto esserlo l’ottagonale ‘Rothko Chapel’ di Houston, che permanentemente ospita opere di Mark Rothko. E per il suo intimo amico appena scomparso (Rothko morì suicida nel ‘70) l’anno seguente Feldman scrisse il brano più commovente e personale della sua carriera, anche se la sfera emotiva di ‘Rothko Chapel’è forse troppo vasta per esser considerata la commemorazione di un singolo individuo, è una musica antica e divina, una salmodia di milioni di vite intonata da una voce sola…
Trovò spesso ispirazione nel lavoro degli amici pittori legati all’espressionismo astratto (Rothko, Pollock, de Kooning ecc.) molto più in questi che non nei suoi colleghi compositori vivi o seppelliti che fossero, da egli squisitamente descritti come: «la più pedantesca, la più barbosa, la più ingenerosa congrega di esseri umani che si possa incontrare su un pianeta gremito di uomini che ci saltellano sopra e lo rimpiccioliscono sempre più». Di qui la tempra, la corrosiva voce d’artiglieria che si avverte leggendo questi ‘Pensieri verticali’, frecce avvelenate verso Boulez, contro i “fantasmi europei”, sull’intoccabilità di uno Stockhausen, verso Darmstadt, l’arte e la società (che tutto tritura) certamente non solo questo ma soprattutto la profonda capacità riflessiva di Feldman di discutere gli sconcertanti problemi della musica d’oggi con i suoi falsi miti e dogmi. Il giovanilismo della musica americana, la sua devozione per Varèse, la stima per Ives, gli omaggi a Stravinsky «senza Stravinsky», a Webern, a Guston e O’Hara, le analisi delle proprie opere, l’importanza dei tessuti nei tappeti orientali, della pittura, l’amicizia con Xenakis (altro grande outsider del secondo Novecento insieme a Ligeti) ed il tutto sempre in grande stile, con immediatezza, semplicità e ironia. In fondo Feldman era proprio questo, o almeno così sembra: un coraggioso ed imperturbabile uomo per il quale non si può far altro che provare della simpatia oltre che una personale e profonda stima per molte e molte delle sue opere. E ce l’hanno fatta, a fare cosa? A scamparla, Feldman è a tutt’oggi vivo e molto ha ancora da dire. Ma il vecchio continente l’ha capito?

 

Simone Santi Gubini (Graz, 12/6/2013)
Articolo precedenteLiberare energia nel contesto contemporaneo: Simone Santi Gubini
Articolo successivoCosottini/Miano: The Inner life of residue
Simone Santi Gubini è particolarmente interessato ad un musica come esperienza fisica intensa, ad una musica come richiesta da soddisfare. Utilizzando sviluppi altamente testuali, ambiguità estrema e toni sovraesposti, il compositore crea un massimo contrasto in ogni parametro musicale ed un'esplosione di relazioni in continuo mutamento per plasmarne di nuove, costringendo la percezione consolidata a rompersi definitivamente. La brutalità del volume e l'implacabile intensità musicale richiedono una grande forza fisica dell'esecutore, uno stato di controllo assoluto e perdita dello stesso. Il corpo degli strumenti media l'enorme rilascio di suono sul pubblico, un'improvvisa accelerazione dell'impatto sonoro nota come shock. Shock come esperienza musicale definitiva.