Joelle Léandre/Philip Greenlief -That Overt Desire of object-
Il primo disco pubblicato dalla Relative Pitch R. non poteva che essere affidato ad una delle regine incontrastate della free music (direi non solo intesa in senso jazzistico e/o sperimentale, ma anche in quello accademico), Joelle Léandre. Di Joelle non basterebbe forse un libro per spiegare il suo lavoro, sempre attento e alla ricerca di novità ed espressione: in “That overt desire of object“, parafrasi di un celebre film di Bunuel, la contrabbassista francese duetta con il multi strumentista ai fiati Philip Greenlief, un ottimo improvvisatore, fondatore di una propria etichetta discografica, ma con poche prove discografiche da leader all’attivo. Il tema che viene trattato dai due è quello della avidità, come elemento fondamentale del peggioramento caratteriale degli uomini, un tema, direi, molto attuale che forse si sposa con le teorie degli economisti e pensatori della “decrescita felice”. Dal punto di vista musicale, “That overt desire of object” si basa su 9 brevi improvvisazioni in duo, in cui Greenlief improvvisa sui quattro strumenti a fiato più rinomati (clarinetto, sax soprano, sax tenore, sax alto) e altre 2 improvvisazioni invece in piena solitudine (una ciascuna con aggiunta di voce propria); il connubio è molto valido e offre almeno nell’interazione un paio di episodi oltre la media (la Variation 3 per Clarinetto e contrabbasso e la Variation 2 per sax alto e cb) dove si avverte anche una certa esaltazione strumentale molto vicina alla musica colta; ma il picco che rende indispensabile l’acquisto di questo cd, sono le due lunghe improvvisazioni finali, dove a turno è palese il coinvolgimento del tema essenziale trattato: vi è una sorta di rabbia mista a disperazione, di rammarico mista a desolazione. E’ senza dubbio il momento in cui grazie alla bravura dei due musicisti (che grazie a tecniche estese danno quasi l’impressione di avere tre bocche o quattro mani) si avverte quello stato di tensione che sembra uscire da un teatro del dramma o da una indomita rappresentazione della vita.
Vinny Golia quartet -Take your time-
Aych -As the Crow flies-
Trio formato da Jim Hobbs, Taylor Ho-Bynum e Mary Halvorson, ossia tre delle più imponenti personalità tra i giovani improvvisatori americani. “As the crow flies” è un disco particolare, dove Hobbs occupa un posto rilevante nel comporre*: si è infatti di fronte ad una sorta di combinazione tra tema e scrittura in “flashback”, dove si odono reminiscenze ed echi di vecchie cose del passato jazz e blues: la title track, nove splendidi minuti di rielaborazione musicale, ha una linea melodica che lambisce la sostanza di un folk song unita ad un flusso tenue di sax alla Dexter Gordon France-oriented; “Kekionga” miscela Ornithology di Parker e Minnie the Moocher di Cab Calloway; “Over yonder” affonda palesemente il motivo nel blues rurale. Nei restanti brani più marcato è il contrasto con gli altri due musicisti che in maniera autonoma sviluppano le proprie idee rispettando categoricamente le loro forti inflessioni stilistiche: Ho-Bynum affonda le redini nel suo tipico fraseggio amniotico, mentre la Halvorson riflette sul trio la sua usuale sghemba attitudine chitarristica. Sempre alla ricerca di immagini ipotetiche da cavare dalla musica, ne viene fuori qualcosa di estemporaneo, fatto di un sapore che unisce passato e presente, passatemi l’espressione si potrebbe parlare di modern free “retrò”; nella finale “Il ecrit que la vie se refuge en seul espace” compare addirittura un refrain da tardo rinascimento.
E’ un progetto interessantissimo, uno sviluppo esclusivo nell’àmbito della free improvisation, che cerca, attraverso la musica, di ironizzare sulla storia, sulle sue credenze e verità (“Southern school of Complete reality” o “Cydonia’s face” o “Bimini Road” fanno al caso), come in un rinnovato racconto di un autore che si diverte a dare la sua versione dei fatti.
Nota:
*Hobbs è un ottimo sassofonista che in queste pagine ho già incensato nell’esperienza del gruppo dei Lawnmover.