Una delle etichette indie jazz italiane più sottovalutate, l’Improvvisatore Involontario, fondata dal siciliano percussionista Francesco Cusa, ha da tempo ospitato al proprio interno una filosofia musicale che è agli antipodi con le “normalità” del mercato discografico interno: se la stampa specializzata di settore se ne è occupata comunque rimarcando le specificità delle proposte dei musicisti, la cerchia degli organizzatori di spettacoli e i direttori artistici, sotto l’influsso della paura del rischio di flop, l’hanno indegnamente sottovalutata. E’ la solita questione a cui siamo abituati purtroppo e che ha un substrato dimostrativo nell’assenza di adeguata educazione musicale, fattore che dovrebbe aver ben altri contorni ed essere migliorato partendo proprio dalla scuola dell’obbligo. Come lo stesso Cusa afferma, in Italia prevale l’intrattenimento ed è difficile la comprensione della complessa cultura musicale odierna, ma non si vede come si può migliorare se si lascia poco spazio a coloro che avendo preventivamente capito i risvolti negativi di quelle carenze, cercano di approntarne dei contributi con una ricerca quanto più ampia possibile.
Dovendo affrontare il mio atavico ritardo negli ascolti (non per mia colpa), dietro l’invito di Francesco ho cercato di anticipare l’ascolto dei suoi progetti, in vista anche di nuove produzioni discografiche appena pubblicate che penso siano di particolar pregio: tra le diverse proiezioni dell’artista, che si presenta piuttosto versatile sull’argomento (1), esplorando anche jazz, rock e colonne sonore, mi soffermo al momento solo sulla dimensione “vocale” ed “improvvisativa”. In merito Cusa ha approntato un paio di collaborazioni (con relativa incisione), quella dei Skinshout, progetto variabile che parte da un duo con una delle migliori cantanti italiane, Gaia Mattiuzzi e si allarga al chitarrista Iriondo ed occasionalmente a due ballerini impostati tra tradizione e danza contemporanea (l’etiopico Melaku Belay e la messicana Jennifer Cabrera); l’altro, con formazione allargata a più voci libere, è quello dei Naked Musicians, in cui si realizza la sua “dilettantistica” conduzione (termine ironicamente da lui usato). Cusa penetra nella vocalità cercando di trarre un inedito connubio tra elementi diversi elaborando modelli stilistici del passato (2): c’è innanzitutto una passione per il recitativo e il teatro (in “Psicopatologia del serial killer” quest’aspetto era ben delineato), per le vocalità di vario genere, da quella classica (non solo per via del normale retaggio operistico delle estensioni di tonalità, ma anche in virtù dei percorsi contemporanei che hanno di fatto introdotto gemiti, ripetizioni senza significato, emissioni di suoni vocali involontari), a quella sperimentale (in cui un peso fondamentale è riservato alle nevrotiche sperimentazioni di Meredith Monk), da quella jazzistica (qui si va dal trio Ross-Lambert-Hendricks fino ai Manhattan Transfer) a quella para-jazzistica (il riferimento è alle emissioni simulatrici di vocalisti come Bobby McFerrin e similari); in “Caribbean Songs“, un cd di brani ancestrali delle relative popolazioni dell’America centrale presi dai forzieri del musicologo Alain Lomax, gli abbinamenti tra il suo drumming che sembra rieccheggiare le antiche evocazioni dei fenomeni atmosferici e la voce di Mattiuzzi che incorpora dentro Berberian, Monk e Carmel sono disorientanti ed affascinanti al tempo stesso: un incursione nell’etnicità totalmente svincolata dal jazz, in cui c’è di tutto, persino una onomatopeica ricerca sul canto; “Altai“, soundtrack per il libro dello scrittore Wu Ming, aumenta il raggio geografico della proposta, evidenziando ancor di più che attraverso la musica (fatta di percussioni implacabili e corde ricercate) e tutte le eccellenti sfumature umorali della voce della Mattiuzzi, si può arrivare ad una nuova capacità di rappresentazione, non imparentata necessariamente con una risaputa tonalità, ma che è moderna ed ugualmente carica di significato estetico. La dimensione improvvisativa è stata curata anche con un progetto pluridisciplinare che coinvolge voci, strumenti e danza: si tratta dei Naked Musicians, un collettivo scindibile nelle sue parti, che richiama per certi versi alla memoria le conductions di Butch Morris: Cusa interagisce con gli elementi fissando, attraverso gesti riconosciuti dagli artisti, ordini e priorità di esecuzione. Il recentissimo “Vocal – Naked Musicians“, che prende in considerazione solo la parte vocale del collettivo, si muove nell’àmbito necessario di coordinate di insieme (un ensemble vocale di ordite proporzioni, vi troverete tra gli altri oltre alla Mattiuzzi, Manuel Attanasio, Marta Raviglia e Cristina Zavalloni) dove è possibile rintracciare gli acumi stilistici del leader (prima citati) al servizio di un potente lavoro di ricomposizione vocale dove poter far scorrere delle ironiche e brevi scenette su vicende, personaggi, ambientazioni che sono al limite del sarcastico, parzialmente accondiscendenti allo stile dadaista zappiano.
Rimanendo in tema di segnalazioni per Improvvisatore Involontario è da ricordare che Gaia Mattiuzzi ha recentemente pubblicato anche il suo primo cd da solista “Laut“, un quartetto eccellente con Puglisi, Calcagnile e Senni, in cui tutto il bagaglio canoro formativo viene veicolato in un patchwork sonoro più vicino alle vestigia jazzistiche. Non è che il risultato sia inferiore, anzi è evidente ed utile scorgere ulteriori elementi di elaborazione oltre all’efficace duttilità della voce della cantante che rende improponibili i confronti: in presenza di uno sfondo smaccatamente jazzistico, la trasversalità qui si compie sulle fonti d’ispirazione e pesca in maniera indistinta nel mondo del canto, dal teatro di Brecht and Eisler all’oscurità dei sensi di Nina Simone, dalle Harmonie du soir di memoria Debussiana per sfrondare il tema di Baudelaire alle possibilità offerte dalle tradizioni (in questo caso ebraica e libanese), fino ad una disinibita reinvenzione della “The world feel dusty” di Copland.
Oggi sono oramai molti i canali con cui la vocalità si esprime, tuttavia gli esperimenti del gruppo di Cusa, che recentemente hanno potuto anche condividere le loro sonorità con il pubblico americano, mi sembrano unici nella loro autenticità e soprattutto vogliono rimarcare l’importanza del linguaggio orale e corporale rispetto a quello scritto.
Oggi sono oramai molti i canali con cui la vocalità si esprime, tuttavia gli esperimenti del gruppo di Cusa, che recentemente hanno potuto anche condividere le loro sonorità con il pubblico americano, mi sembrano unici nella loro autenticità e soprattutto vogliono rimarcare l’importanza del linguaggio orale e corporale rispetto a quello scritto.
Note:
(1) per un esame completo vedi http://www.francescocusa.it/bands.php
(2) “……io mi ritengo un tradizionalista più che un innovatore dal punto di vista dello “stile”. Parto dal principio che non vi è nulla di “nuovo” da creare al momento, ma semmai da giustapporre….” Cusa in un’intervista di Enrico Bettinello su All About Jazz, maggio 2004