Kayhan Kalhor

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Source https://www.tasnimnews.com/fa/media/1395/09/14/1257275/%DA%A9%D9%86%D8%B3%D8%B1%D8%AA-%DA%A9%DB%8C%D9%87%D8%A7%D9%86-%DA%A9%D9%84%D9%87%D8%B1-%D9%88-%D8%A7%D8%B1%D8%AF%D8%A7%D9%84-%D8%A7%D8%B1%D8%B2%D9%86%D8%AC%D8%A7%D9%86 Author Foad Ashtari, Creative Commons Attribution 4.0 International license.
Come spesso accade molta stampa rimarca le dolorose scomparse nel campo della musica solo dopo la morte dell’artista segnalato: è un atteggiamento non condivisibile ma purtroppo reale; in questo caso mi riferisco (tra le tante accadute) al compositore indiano Ravi Shankar, la cui importanza non aveva certo bisogno di revivals in tempo di morte; ma la cosa che spaventa maggiormente è che la figura del signore del sitar sia stata confinata agli episodi più vicini a Harrison e intrighi simil-Beatles invece che essere allargata alla celebrazione di uno dei primi puri fautori di un’intelligente world music organizzata in stile “classico” (dove per classico si deve intendere sia quello di corrispondenza occidentale che quello orientale). Tuttavia era anche da tempo che una delle principali caratteristiche della musica dell’indiano, cioè il raga, che dagli anni sessanta ad oggi è stato oggetto di considerevole sfruttamento, cominciava a mostrare la corda causa la reiterata mancanza di variazioni: in questa sede quello che si vuole rimarcare è che il mondo della world music odierno sembra ancora dare più credito ad artisti che in maniera molto semplicistica hanno pensato di risolvere il problema presentando incroci memori delle caratteristiche usate dalla fusion occidentale: ci troviamo di fronte a nuove tipologie di chitarre e di strumenti di matrice tradizionale in cui i musicisti si impegnano negli assoli in una dimensione di “appariscenza” simile (sia per forma che per vicinanza alle tematiche cosmiche) allo Shakti di McLaughlin, ma la sensazione è che in questo momento stia diventando più pregnante ed interessante (anche in funzione di una intersezione con le arti poetiche e filosofiche) il giro di musicisti proveniente dalla vicina Iran dove la figura di Kayhan Kalhor sembra aver monopolizzato la recente storia della musica iraniana: negli ultimi quindici anni anche la parte indiana della sua musica (che si unisce per ragioni geografiche e storiche alla parte persiana) sembra aver prodotto maggior benefici sul piano dell’esaltazione della serietà di intenti: nella carriera di Kalhor, che per chiare ragioni politiche vive come la totalità degli artisti di quella zona negli Stati Uniti, sono passati musicisti e progetti che hanno valorizzato in maniera adeguata cultura classica e tradizioni di quelle controverse regioni: dal programmatico ed iniziale progetto dei Ghazal (che gli ha permesso di imporsi alla comunità internazionale e probabilmente procurato il contratto con Eicher alla Ecm), allo splendido incontro dei Masters of Persian Music (specie il doppio “Faryad“, in cui figurano tutti i principali musicisti della zona, dal cantante Mohammed Reza Shajarian al tar di Hossein Alizadeh e alle percussioni di Homayoun Shajarian) che merita di stare tra i migliori albums etnici dello scorso decennio, dagli esperimenti fondati sull’asse occidente-medioriente-oriente con la Silk Road Ensemble di Yo Yo Ma ai duetti con gli emergenti musicisti limitrofi, e soprattutto senza dimenticare la propria dimensione solistica. Io non so cosa ne pensiate, ma Kalhor merita un reale apprezzamento sia come sensitivo musicista (è il miglior esponente del kamencheh, una specie di violino rimaneggiato con un suono splendido che si impone per il fascino esotico della musica che produce) sia per la profondità del set musicale che trasmette in maniera chiara le “incursioni” del suo pensiero e del suo animo: Kalhor riesce a dare alla teoria della meditazione tramite musica quello che forse il raga non riesce più a trasmettere, quell’intensa spiritualità che non conosce il desiderio sinuoso di dover affascinare a tutti i costi il pubblico attraverso qualche espediente (che sia negli strumenti o nella telepatica vocalità), attuando collegamenti con la poesia che non sono teoricamente astratti ma che presentano la visuale di una parte di popolo che ha dovuto affrontare il saccheggio intellettuale ed indiscriminato della cultura effettuato dai fondamentalisti. La musica orientale di origini persiane è antichissima ed è sempre stata molto sofisticata, con caratteristiche diverse dal resto dell’Oriente: è una musica intensa, raffinata, non eccessivamente estatica, basata su una contemplazione musicalmente coerente e indiscutibilmente legata alla poesia locale, in cui anche il canto si adegua agli ornamenti della musica, dove è stato pesantemente influenzato anche il folklore iraniano (ossia quello rivolto a cerimonie o alla vita nei campi). L’invito è quindi a scoprire questo splendido musicista che sta mantenendo viva e fresca la tradizione persiana e di cui compositori come Cowell se ne sarebbero certamente innamorati.
Discografia consigliata:
-Scattering stars like dust, Traditional Crossroad 1998
-As night falls on the Silk Road, Shanacie L., 1998 (Ghazal Ensemble)
-Night Silence Desert, 2000, Traditional Crossroad with Mohammed Reza Shajarian
-Rain, Ecm 2003 (Ghazal Ensemble)
-Masters of persian music, Faryad, World Village R, 2005
-Wind, Ecm 2006 con Erdal Erzincan, baglama e Ulas Uzdemir, bass baglama
-Silk Road Ensemble: New Impossibilities, 2007 con Yo-Yo Ma and Silk Road Ensemble
-Forthcoming-I Will Not Stand Alone, 2011, con Ali Bahrami Fard on bass santour
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.