Nono era alla costante ricerca di un equilibrio tra i vincoli della tecnica e le esigenze di fornire un’adeguata espressività alla musica. Si trattava di un equilibrio da applicare a qualsiasi strumento e a qualsiasi voce: dopo che l’opera romantica aveva sotterrato le bellezze e gli incanti della polifonia era necessario sconvolgere il pensiero dominante di una musica in cui l’aspetto melodrammatico o drammaturgico mercificato dal comune uso fosse riaperto per essere affrontato in un mondo (che si era appena aperto intorno al 1950) in cui tutto il cosmo di cantanti e musicisti impegnati nei drammi “gratuiti” dell’ottocento fosse sostituito da una più reale accondiscendenza dei valori espressi dalla letteratura senza scadere nella retorica e nella banalità. A tal fine Nono impose il carattere fonetico e semantico del testo, dove la fonetica era scansione della sillabazione e la semantica era chiarezza delle parole pronunciate, due aspetti che dovevano privilegiare l’efficacia del senso del testo recitato o cantato: questo principio venne condiviso anche con la strumentazione (minuta o ampia che fosse) poichè lo scopo era quello di contrapporre non solo le voci ma anche quest’ultime con linee di ensembles strumentali per creare un nuovo contrappunto dove le singoli componenti avessero delineati concetti di forza direzionale.
Stefano Gervasoni, compositore italiano che ormai vive e lavora in Francia già da parecchi anni, è sicuramente un continuatore della politica musicale di Nono e non solo per la conoscenza personale fatta tra i due artisti. Specie per quanto riguarda gli aspetti sottolineati prima Gervasoni ripropone quella voglia di abbinamento tra musica e poetica, riprendendo quasi pedissaquemente testi di autori affermati come ispirazione di tutte le composizioni, che fu anche di Nono (particolarmente esplicativa al tal riguardo è la contrapposizione di “Dir Indir” per sestetto d’archi e voce). Pur essendo ormai riconosciuto internazionalmente, le registrazioni discografiche di Gervasoni non sono molte, specie se si pensa a quelle monografiche: nel 2008 la Aeon pubblicò una splendida raccolta di brani che offrivano abbastanza fedelmente lo specchio delle visuali artistiche del compositore; la Stradivarius si è tenuto al passo pubblicando recentemente un nuovo episodio monografico, seppur senza saper evitare delle non necessarie duplicazioni, poichè in “Least Bee” vengono riproposte quest’ultima e “Godspell” (che erano già state registrate sulla raccolta Aeon), nonchè “In Nomine R” apparsa già su una raccolta Kairos. Quindi solo due composizioni registrate (“Eyeing” e “Dal Belvedere di non ritorno”) in rapporto ad un materiale più ampio e di costante qualità.
La grandezza di Gervasoni e la differenziazione rispetto a Nono sta in quella sfida continua che vede il compositore alla ricerca di un modo per tenere vivo il legame tra la percezione dei suoni e i concetti che si vogliono esprimere: così come rinviene dalle poesie prescelte come fonte d’ispirazione musicale, Gervasoni restituisce le visioni amare della realtà fatte dai poeti: la scelta cade su Rilke, Ungaretti, Dickinson, Levine, etc., scrittori che hanno dovuto affrontare un lato oscuro dell’anima pur vivendo il loro combattimento interiore senza particolari tensioni esterne. Tutti hanno una visione pessimistica della vita e affermano che qualsiasi miglioramento dell’uomo si scontra con la sua natura e con quella degli altri, fagocitatori di un’insaziabile pletora di speranze. Il fascino della musica di Gervasoni, quindi, non deriva solo dall’applicazione delle tecniche contemporanee ma anche dal modo con cui organizza gli elementi della sua rappresentazione. Il suo è un atteggiamento apparentemente narrativo, ma che nasconde attraverso la musica una “lagnanza”, un’insoddisfazione; egli sottolinea angolature umane con perspicacia ma, come in un ciclo di onde, riproduce alla fine quel senso di inarrivabile. Prendete ad esempio questa poesia di Rilke, Les Quatrains Valaisans 31rd poem, sulla quale Stefano ha costruito la sua composizione:
Chemins qui ne mènent nulle part
entre deux prés,
que l’on dirait avec art
de leur but détournés,
chemins qui souvent n’ont
devant eux rien d’autre en face
que le pur espace
et la saison.
Quel senso di tristezza intrinseca è la motivazione della sua musica, dalla quale però non deve trasparire tristezza in maniera diretta: nella composizione per piano solo di “Studio di Disabitudine“, egli affronta il tema di quello che egli chiama “désappréhension“: è un sentimento praticamente invisibile che grazie a lui riemerge con costanza nel brano; è un brano di tendenza surrealista che è un viatico per entrare in quel microcosmo della vita che è l’allegria amara, dove tutte le azioni dell’uomo sono espletate solo ai fini di una mera sopravvivenza della nostra personalità, una sorta di rappresentazione dell’espressionismo dell’Allegria in stile Ungaretti “Sentimento del Tempo“: trovare un senso mistico ad un dilaniante presagio universale. La statura di Gervasoni sta proprio nel saper metter a fuoco queste figure che popolano le rappresentazioni musicali attraverso un accurato studio sui timbri e le tessiture: qui lo “scarno” è una narrazione che deve evidenziare la nostra seconda facciata, quella interiore.
“Dal belvedere di Non Ritorno”, si legga un verso di una poesia, Il Poggio, del poeta italiano Vittorio Sereni.
Il poggio
Quel che di qui si vede
mi sentite?
dal belvedere di non ritorno
ombre di campagne scale naturali
e che rigoglio di acque che lampi
che fiammate di colori
che tavole imbandite
è quanto di voi di qui si vede
e non sapete
quanto più ci state.
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