La musica sacra offre ancora oggi un potente alibi per potersi chiudere ad una devastante riflessione (fatta anche nella preghiera) per far fronte ai momenti difficili della nostra esistenza, a quelle sfide incombenti che si devono affrontare durante il percorso di vita; è spesso una realtà imperscrutabile che regge in maniera impermeabile all’usura dei tempi; su questo alibi prospettato ho avuto modo già di esprimere un mio punto di vista in un articolo del passato: è una nicchia in cui molti troverebbero benessere senza dover ricorrere ad idee cervellotiche sulla adattabilità della proposta. Quella della coralità è un settore che allo stato attuale è diviso in una sorta di tripartizione geografica a cui si accompagna anche una situazione di stile:
1) nell’impegno culturale ben congegnato, tradizionalmente portato avanti da vecchi e nuovi compositori dell’area nordica;
2) nella realtà modificata anglo-sassone che, dopo un periodo di pressante storicizzazione classica, sembra stia virando verso forme di compenetrazione con altri generi musicali;
3) la dimensione latina guidata dall’istinto popolare e da una vivacità che si è inaugurata con compositori come Goljov.
Nell’ambito del primo punto a rilevanza nordica, quasi tutti i principali compositori si sono cimentati nel tempo nel rapporto con la sacralità condividendo quella dimensione profondamente spirituale del componimento religioso, direi in maniera quasi carnale. Pur prescindendo da caratteristiche stilistiche non proprio simili, e quando dico simili mi riferisco alla evidente differenziazione che ha subito la sacralità corale per via dei movimenti minimalisti degli ultimi quarant’anni in cui questi ultimi hanno proposto un sacramento anche “cristallizzato” dell’anima, la maggior parte di loro si è basata su una nuova filosofia della scrittura per cori: cercare di esprimere i volti dei loro destinatari senza basarsi su regole tecniche prestabilite, anzi cercare di trovarli attraverso una ricerca profonda imperniata su fattori metafisici, su possibili dinamiche visionarie offerte da un incontro totalizzante di tutte le religioni (cattolica, ortodossa, luterana, orientali, etc.) dove la divisione possa essere superata dalla concezione. La raccolta delle opere corali del compositore finlandese Rautavaara (per un profilo vedi qui) è un esempio di questa ricerca: essa mostra incredibili composizioni basate su un senso mistico splittato in opere che condividono quello che il teologo Friedrich Schleiermacher chiama “affinità per l’infinito”; sia che si tratta di un impianto polifonico non perfettamente puro (con consistente uso dell’omofonia) a sostegno della liturgia cristiana come nella Missa a Cappella o nella Missa Duodecafonica, sia che si tratti di ortodossia attraverso la lunga Vigilia (che qui appare in estratti), quello che emerge è il tentativo di costruire dei canali di comunicazioni impensabili con il divino. La figura ricorrente di Rautavaara, ossia l’angelo, che compare anche nel Die erste Elegie, riprende le idee e i testi delle poesie di Rilke: l’angelo prospettato dai due ha quel senso di onnipotenza (ben descritto da una musica che ci atterra per l’estasi e la riflessione provocata nel nostro inconscio tramite tutta una serie di particolari sonori), le cui azioni però sono anche sfuggenti alla nostra percezione: “….l’angelo nelle Elegie è la prima creatura in cui appare già completa quella trasformazione del visibile nell’invisibile….è l’essere che garantisce il riconoscimento di un più alto grado di realtà nell’invisibile….dunque terribile per noi, perchè noi, suoi amanti e trasformatori, dipendiamo ancora dal visibile….”. Questa traduzione di un passo delle Elegie di Rilke fatta dal polacco Witold Hulewicz, dimostra come Rilke non attribuisca all’Angelo importanza per il suo carattere annunciativo o mediatico, ma per quello trascendentale, una sorta di divinità al pari di Dio che lascia scorrere gli eventi e non è custode di nessuno (insinuando un’idea di obbedienza testuale che sembra essere vicina all’islamismo): è nella perfezione del percorso spirituale che l’uomo deve trovare la sua “angelizzazione“, fattore che gli consentirà di salvarsi.