Nuove dimensioni del canto femminile

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Pur essendo passata molta acqua sotto i ponti della ricerca in merito alla risonanza acustica e sulle decostruzioni della vocalità, un paio di nuovi esperimenti provenienti da due compositrici di base a New York meritano di essere segnalati per via di un probabile trend ancora in evoluzione: Aya Nishina e Kristin Nordeval appartengono entrambe a quel settore concettuale senza barriere della musica, che cerca di attuare una sovraesposizione della voce femminile; in verità è un fenomeno che accompagna già molti artisti anche in altri generi (vedi per esempio le mie considerazioni nella trasversalità jazz su Marie Kvein Brunvoll), musiciste che accompagnano il loro canto anche con dei loops prescelti; che si stia ripristinando quel principio dettato da Joan La Barbera che individuava nella voce l’originale e primogenita espressione musicale è indubbio, così come è indubbio che dai tempi di Hildegard Von Bingen ci sia stata un evoluzione del canto che ha lasciato molti punti fermi nella storia, ma che poi a partire dal novecento ha subito un’accelerazione di tipo tecnico, sposando le avanguardie e le possibilità estreme della voce, così come la sua frammentazione nei meandri delle scoperte impartite dall’elettronica. In tal senso c’è un’ottima letteratura al riguardo, che potrebbe essere affiancata oggi da queste idee della Nishina e della Nordeval, che si pongono in un’ottica ancora forse suscettibile di miglioramenti.
Aya Nishina è una giovane protetta di John Zorn e R. Sakamoto: il suo “Flora“, esordio per la Tzadik, si muove coraggiosamente nell’àmbito di una potenziale simbiosi biologica tra essere umano e natura, raggiunta attraverso una soddisfacente combinazione di suoni organizzati solo in forma vocale: l’operazione compiuta con un gruppo di altre sei vocalist è un meticoloso apparato di quello che si può creare con le voci femminili per cercare di trovare risonanze, che possono essere viste sia come surrogati degli strumenti che come linee moderne di polifonia. E’ un impianto vocale sirenico che ci fornisce simuli della tromba itinerante dell’Hassell di “Weathered wall” (David Sylvian) o il carattere delle composizioni di Sakamoto, mentre la carrellata di riferimenti si allunga nella storia: dalla monodia della citata Von Bingen ai lievi melismi che rifanno alla polifonia rinascimentale, dal canto tradizionale orientale a qualche struttura in drone, dagli arrangiamenti vocali della pop music dei Beach Boys, passando per quelli folk di Simon & Garfunkel fino ad arrivare alla materia trattata da Susanne Vega: tutti elementi che si fa fatica a riconoscere in prima istanza data la destrutturazione particolare degli incroci al canto che è espressione di una serie di echi ed influenze che si è potuto scorgere, una conciliazione eccitante di diverse intonazioni di canto.
Kristin Nordeval amplia il discorso delle risonanze aggiungendo la sua esperienza e preparazione nel campo del live electronics: la compositrice, che era già emersa nel bellissimo duo improvisativo con la trombonista Monique Buzzartè nel gruppo Zanana,, fa parte del circuito delle sonic experiences della Oliveros. “Aural Histories” è una derivazione della teoria dell’ascolto profondo, costruita su un equilibrata dosatura della sua voce soprano con la strumentazione digitale; un soprano tenuto sempre in una posizione oscura, che a tratti subisce la manipolazione o imposta lunghe elucubrazioni vicine ai tecnicismi di Joan La Barbera o di una Meredith Monk meno rivoluzionaria: ma anche l’elettronica viene trattata in modo molto positivo creando spesso le premesse per evocazioni di paesaggi musicali che devono molto alla migliore concrete music e all’industrial music. Quello che colpisce è la costruzione dei suoni, che nella loro apparente semplicità, riescono a delineare un probabile messaggio esistenziale che si libra tutto nelle vicissitudini del canto e degli strumenti elettronici: alcuni passaggi mi hanno stranamente portato alla memoria un paio di flashbacks di “Dark side of the moon” dei Pink Floyd: “13 Inspirations” ripresenterà lo spirito del fantasma digitalizzato di “Great gig in the sky” oppure nella strumentale “Narco Kyrie” un loop sembra avere le stesse dinamiche (rallentate) di quello usato in “On the run“; pur con tutte le differenze stilistiche del caso, sembra ripresentarsi in nuove forme quel lugubre presentimento di disfatta che pervadeva il lavoro degli inglesi.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.