Nel 2011 inserii “A quiet light” di Meg Bowles tra i dischi migliori di ambient/newage: una scelta ardita di questi tempi, soprattutto alla luce del fatto che in quel canale scavato da Eno, Roach, Rich e tanti altri, di innovazione non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Tuttavia restando il sottoscritto fedele al fatto che le nuove riproposizioni vanno comunque valutate e se del caso costituire un aggiornamento ad un determinato settore musicale, venni colpito dalla maturità raggiunta dalla musicista americana, che solo dopo qualche tentativo, sviluppava delle magnifiche costruzioni sonore nettamente superiori alla media. In un’intervista rilasciata ad Ambient Visions, la Bowles ha rivelato come, almeno all’inizio, la sua carriera di musicista elettronica fosse condivisa (anzi superata) da quella rivestita come responsabile del trading presso una banca di investimenti statunitense e dalla passione per la psicologia; ma sembra anche che in casa sua la musica non fosse mai mancata. L’influenza degli ascolti classici tendenti alla sperimentazione elettronica è stata determinante per il suo processo di formazione stilistica: “………..My dad also had LPs of some of the pioneers of electronic music for tape – Otto Luening (also a flutist) and Vladimir Ussachevsky. I found all of that stuff very cool because it really got my imagination going. As for similarities with classical music, there are various forms they can have in common, such as the use of repetitive rhythmic/harmonic riffs and loops which are basically ostinatos – as in Ravel’s Bolero for example. In addition to using that and other classical techniques (melodic development, counterpoint, etc.), I work with electronic sounds as if I were scoring for an orchestra, only with a wider, deeper soundstage. So I’m always listening for orchestration, and to the brilliant work of composers really good at it, like Copeland and Ravel among others, in order to learn more…..” (tratto dall’intervista ad Ambient Visions).
L’orchestral ambient di Meg Bowles
“A Quiet light“, pur riproponendo temi sciamanici o comunque legati alla riflessione mistica, si distingueva per la bellezza delle strutture, levigate al punto giusto e senza eccessi, di quelle che francamente oggi si riscontrano in pochi attori dell’elettronica figlia di quelle scoperte fatte in equilibrio con il cosmo. Quella che è stata definita una forma di orchestral ambient, una forma invero già utilizzata nell’elettronica (si pensi alle pièce di Oldfield o alle riproduzioni degli archi dei Liquid Mind di Chuck Wild) si ripercuote anche nel recente “The shimmering land“, dove Eno sembra sedersi ad un tavolo con un partitura eterea (si notino le somiglianze in “The sweetness of mist“) e con quei tempi lenti, inesorabili ma pieni di fascino, assolutamente a disposizione della “musica” e dell’ascolto di qualunque orecchio.