In quest’epoca in cui non si fa altro che parlare dell’estinzione dei valori, può la musica essere un veicolo per riportare in circolo quella moralità che latita? L’arte (e la musica nel nostro caso) dev’essere solo una rappresentazione dei fatti o dei sentimenti della nostra vita oppure può giungere ad un significato etico obbligatorio? Quali sono i percorsi entro i quali la musica può muoversi per rispondere a quel senso di “vita buona” che ricorre nelle prerogative ancestrali della vita umana?
Con molta semplicità bisogna innanzitutto sgomberare il campo da tanti equivoci, tra cui quello madornale di considerare le forme e l’estetica di una musica come una sorta di biglietto di visita di essa, al pari di quei pregiudizi che gli uomini mostrano di fronte a qualcuno che, seguendo dei propri punti di vista non convenzionali, si presenta ai loro occhi come “diverso”. La storia musicale ci insegna che spesso anche sotto la lente dei peggiori “diavoli” musicali (penso allo sfruttamento del concetto del maligno condiviso da molta musica rock o metal o a tutti coloro che hanno suonato navigando a vista in preda agli effetti di sostanze stupefacenti) si nascondevano esorcizzazioni morali della realtà musicale: la cantante Diamanda Galas, il cui universo luciferino è qualcosa che musicalmente romperebbe qualsiasi buon proposito all’ascolto, in realtà propinava una selvaggia e cruda rappresentazione della tragedia greca in una forma parossistica che, oltre ad essere eccelsa dal lato artistico, toccava i più profondi sensi della moralità.
Di solito coloro che si sono occupati di dare un senso alla relazione tra etica e musica sono stati da sempre i filosofi: l’impressione è che oggi che la loro figura sia stata relegata da un mondo che ha scoperto che l’uomo ha fallito miseramente ogni tentativo di migliorare il suo status morale, poichè ogni forma di progresso non produce risultati apprezzabili e definitivi: in concreto, nonostante lo scorrere dei tempi, egli resta sempre depotenziato dai soliti problemi “storici” (guerre, ingiustizie, incomunicabilità, malattie, etc.). Lo stesso Adorno, uno dei filosofi più apprezzati di tutti i tempi, riguardo alla musica jazz incorse in uno dei suoi più grandi errori di valutazione, giudicando il jazz come una musica popolare il cui successo era stato decretato in maniera non autentica dal capitalismo americano, salvo poi essere imbarazzato nel fornire una spiegazione plausibile di fronte alle evoluzioni che il jazz raggiunse dopo il 1950, quando cominciarono a comparire le prime forme di rottura e contaminazione con l’universo dei suoni antistorici.
La relazione etica della musica è quindi un giudizio che deve bypassare la storia, basandosi su due inprescindibili fattori operanti all’opposto: da una parte è necessario un’oggettivazione di quei valori “morali” di cui si parla, stabilire quali siano quei valori; dall’altra è necessario legarli alla musica, ossia prendere in considerazione il contenuto emotivo dei suoni. Quando si parla di contenuto emotivo è indispensabile far riferimento non alle emozioni ordinarie ma a quelle mediate, quelle che attraverso l’immaginazione e la simulazione ci riconducono a situazioni di vita. In merito a quest’ultimo aspetto, quindi, potremmo riconsiderare tutto il nostro apparato percettivo musicale: riprendendo il caso prima citato di Diamanda Galas, noi potremmo vedere “valori” in quello che formalmente si presenta come un vero e proprio inferno della rappresentazione.
A prescindere dall’influenza che una musica senza morale può esercitare sull’uomo, la stessa può fornire elementi per il corretto inquadramento del carattere di una persona: può dargli informazioni sulla vita attraverso l’arte (nel nostro caso la musica), può restituirgli l’autenticità dei valori etici anche quando essi sono volutamente distorti dal contesto dell’opera: si pensi alla musica di Le Sacre du Printemps di Stravinsky, che in definitiva racconta del sacrificio di una ragazza che balla fino alla morte per propiziare il raccolto; in realtà dietro quel sacrificio si celava uno sconcertante richiamo alla società russa del suo tempo.
Un altro esempio concreto di moralità “traversa” potrebbe scaturire da altri contesti musicali più leggeri: gli svedesi Abba, uno dei gruppi formalmente più “criticabili” della storia musicale pop degli anni settanta per via di testi inneggianti ad una semplicità quasi imbarazzante, incredibilmente restituivano attraverso la loro musica buona parte di quel senso di libertà tutto pre-europeizzante, miseramente naufragato con il tempo.
Il legame con il contenuto emotivo è anche uno dei principali veicoli con cui misurare l’eticità di proposte come la musica contemporanea o quella dell’improvvisazione, specie di quella che ha dimenticato i suoi legami con il passato jazzistico: qui sembra ancora più difficile ricavare un senso etico, poichè i suoni vanno decodificati e liberati dalla loro criptografia. In tutti i casi, per svegliare il senso emotivo della musica e a catena individuare gli eventuali aspetti etici, è necessario un percorso di quello che io chiamo “subliminalità” della musica, ossia una moderna immedesimazione nelle vicende espressive del musicista: questo passaggio, non semplice da affrontare per l’ascoltatore comune, è senza dubbio il fattore che fondamentalmente ha decretato la mancanza di interesse generale, ma che ha aperto orizzonti immacolati nel campo musicale; queste considerazioni sono applicabili sic et simpliciter nella fruizione di buona parte della musica di derivazione elettronica, con l’ampliamento universale dei valori etici alle discipline orientali.
Nell’improvvisazione, in particolare, l’etica si può scoprire anche aderendo alla tesi dell’audiotattilità profusa nel pensiero di molti critici in cui l’improvvisatore, o in solo o ancora meglio nella dimensione di gruppo, riconosce uno spirito socializzante che deriva dagli atteggiamenti musicali assunti (ben più visibili nelle esibizioni pubbliche): l’interazione tra i membri, espressa attraverso attese e ripartenze, è l’equivalente dei loro rapporti extramusicali, come in una normale conversazione si esprime il proprio punto di vista: è quindi un caso in cui la libertà di espressione subisce un evidente stop organizzativo perchè l’azione dev’essere in qualche modo coordinata, ma che restituisce una visione comune di identità di scopi e di “valori” da raggiungere.